Bill Gates ha recentemente pubblicato sul suo blog Gates Notes un post intitolato La strada che porta a domani dopo venticinque anni, per fare un bilancio sulle previsioni che aveva azzardato nel suo primo libro, uscito appunto alla fine del 1995. Volendo essere brevi, si potrebbe riassumere il post dicendo che il suo libro potrebbe oggi essere ristampato con il titolo La strada che ha portato a oggi, cambiando semplicemente i verbi dal futuro al presente o al passato.

Il mondo che Gates aveva in mente un quarto di secolo fa è infatti, in larga parte, quello informatico in cui viviamo oggi. A partire dagli smartphone, che nel 1995 Gates chiamava più propriamente wallet PC, ma che non sono comunque un’invenzione sua, né di Steve Jobs: fu Alan Turing a progettare nel 1936 il cosiddetto “calcolatore universale”, in grado di fare tutti i calcoli digitali possibili, e a suggerirne le applicazioni più disparate.

Le più ovvie erano appunto le riproduzioni di suoni e immagini, che permettono al cellulare di essere allo stesso tempo un telefono, un registratore, una radio, una macchina fotografica, una cinepresa e una televisione, anche se la costruzione fisica di un dispositivo universale tascabile ha dovuto attendere lo sviluppo di una tecnologia miniaturizzata e a costi abbordabili.

Tra le altre previsioni azzeccate di Gates c’erano i sistemi di intrattenimento on demand, che hanno ormai reso obsolete le sale cinematografiche e i centri di noleggio alla Blockbuster: le prime ormai boccheggiano, e i secondi sono ufficialmente falliti nel 2013.

Non si è invece finora completamente realizzato il previsto passaggio al lavoro e all’insegnamento on line, anche se l’emergenza Covid sta rapidamente avendo ragione delle resistenze al riguardo ancora presenti nello zoccolo duro dei cittadini e dei governanti: lo stesso Bill Gates, in un intervento alla CNBC del 17 novembre scorso, ha previsto che il 50 per cento dei viaggi d’affari e il 30 per cento del lavoro in ufficio sarà scomparso alla fine dell’emergenza.

Naturalmente, poiché nessuno è infallibile, anche Gates qualche previsione l’aveva sbagliata nel suo libro: in particolare, sottovalutando l’impatto dell’allora nascente Internet, e immaginando un tipo diverso di autostrada informatica. Nel 1995 lui pensava infatti a un modello all’italiana, con un gestore centralizzato (che, nei suoi piani, avrebbe ovviamente dovuto essere la Microsoft) e caselli di entrata a pagamento, mentre fortunatamente il modello che ha preso piede è invece quello di un’autostrada all’americana o alla tedesca, con un traffico in larga parte gratuito.

Neppure la realtà virtuale ha avuto lo sviluppo che Gates e altri prevedevano, e che era stato propagandato da romanzi quali Neuromante (1984) di William Gibson e Snow Crash (1992) di Neal Stephenson, o film quali Il tagliaerbe (1992) di Brett Leonard e Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski. In particolare, non si è mai andati oltre deludenti visori o guanti, e siamo ben lontani dalle tute sensoriali che permetterebbero di riprodurre in maniera digitale tatto, olfatto e gusto. E meno che mai si è sviluppato il previsto “grande mercato di sesso virtuale”, che costituirebbe comunque un bel miglioramento rispetto allo squallore del grande mercato del sesso tradizionale.

La casa informatica

Per le persone normali come noi, il capitolo più sorprendente di La strada che porta a domani era forse quello sulla “casa informatica”, che l’autore stava già costruendo per sé, terminandola qualche anno dopo. Ovviamente, essendo uno degli uomini più ricchi del pianeta, e spesso il più ricco, Gates poteva permettersi spese folli: per la sola campagna pubblicitaria del libro investì un milione di dollari, presentandolo in una sola settimana a Los Angeles, San Francisco, New York, Washington, Londra e Parigi, mentre la casa gli costò sessanta milioni, e oggi ne vale più del doppio.

Visitarla non è semplice, e un dirigente della Microsoft è arrivato a versare 35mila dollari in beneficenza per meritare l’onore. Ma per poche decine di dollari si può visitare a San Simeon, vicino a Los Angeles, la casa del magnate William Hearst, reso famoso dal film Quarto potere (1941) di Orson Wells, e farsi un’idea della megalomania degli straricchi. Hearst la chiamava semplicemente “Il Ranch”, ma per il suo alter ego di celluloide era invece Xanadu, come la città descritta da Marco Polo nel Milione (1300 ca.) e da Samuel Coleridge nel poema Kublai Khan (1797).

La casa di Gates si chiama Xanadu 2.0, con una doppia allusione: oltre al castello degli Hearst, anche al primo progetto ipertestuale, chiamato appunto Xanadu, iniziato nel 1960 da Ted Nelson, e considerato un antesignano del World Wide Web. Come si può immaginare, la casa ha dunque una forte impronta informatica: dei trecento operai che lavorarono alla costruzione, cento erano elettricisti, e i soli megaschermi sparsi per la casa costarono 80mila dollari.

Ogni visitatore che arriva riceve una spilla con un chip su cui vengono registrate le sue preferenze di temperatura e luce ambientale, musica di sottofondo, arte alle pareti, e simili, così che la casa possa adattarsi ai suoi gusti mentre egli si muove per le stanze. Persino l’irrigazione del grande acero del parco è automaticamente regolata da una serie di sensori.

I seimila metri quadri dell’abitazione contengono gli ovvi ambienti sovradimensionati e in soprannumero (cucine, bagni, piscina, palestra, teatro, garage), con una sala da pranzo per 150 commensali, ma il sancta sanctorum è costituito da una biblioteca di duecento metri quadri, il cui pezzo forte è un manoscritto di Leonardo acquistato nel 1994 per 30.8 milioni di dollari.

Oltre a essere un imprenditore, infatti, Gates è un intellettuale che, dovunque vada, porta con sé un borsone di libri da leggere, sugli argomenti più disparati: molti li recensisce nel suo blog e a volte ne intervista gli autori, da Jared Diamond a Vaclav Smil, offrendo consigli di lettura informati e interessanti.

Le tre puntate della miniserie di Netflix Dentro la mente di Bill Gates (2019) lo mostrano spesso nella biblioteca, sulla cui cupola sta incisa una frase tratta da Il grande Gatsby (1925) di Francis Scott Fitzgerald: «Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro, e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non potergli sfuggire».

Strana citazione, visto che nel romanzo è l’epitaffio del protagonista, che si era arricchito con attività illecite, viveva anch’egli in una specie di Xanadu, ed è morto assassinato senza realizzare affatto il suo sogno: non proprio il miglior tipo di sognatore da prendere a modello, dunque.

Sia come sia, è interessante osservare alcuni dei libri inquadrati sugli scaffali della biblioteca, fra i quali spiccano classici come le opere di Gottfried Leibniz e Gottlob Frege, in particolare la Teodicea (1705) e I fondamenti dell’aritmetica (1884): non sorprendentemente, visto che si tratta dei due maggiori precursori della moderna logica matematica, e dell’informatica che ne è scaturita. Ma non mancano libri di ogni genere, da I princìpi di psicologia (1890) di William James a L’io della mente (1981) di Douglas Hofstadter e Daniel Dennett.

D’altronde, Gates è solito prendersi quelle che lui chiama think weeks o CPU times, che sono una sorta di esercizi spirituali laici: cioè settimane di isolamento dedicate alla lettura e all’approfondimento dei temi che lo interessano, che spesso conducono ai filantropici progetti finanziati dalla Fondazione Bill e Melinda Gates, fondata nel 2000 e avente un capitale attuale di quasi cinquanta miliardi di dollari.

Profeta inascoltato

Due dei maggiori filoni perseguiti da Gates sono i problemi energetici e climatici, da un lato, e le epidemie e i vaccini, dall’altro. Non a caso, ad essi sono dedicate due delle puntate della miniserie Netflix, oltre che i due brevi filmati TED Innovare verso lo zero (2010) e La prossima pandemia? Non siamo pronti (2015).

Dopo che questo secondo tema è diventato di scottante attualità quest’anno, rivedere oggi il filmato di cinque anni fa (come hanno ormai fatto più di trenta milioni di spettatori) fa veramente apparire Gates come un profeta inascoltato, che ha chiesto inutilmente agli stati di dedicare alle epidemie la stessa attenzione e le stesse strategie che essi dedicano alle guerre o al terrorismo: creazione di eserciti di personale specializzato, simulazioni di difesa dagli attacchi epidemiologici, e sviluppo sistematico di armi preventive (vaccini) e di cure consuntive.

Non averlo fatto ha permesso al Covid di mietere negli Stati Uniti un numero di vittime superiore a cinque volte quelle della guerra in Vietnam, e ottanta volte quelle dell’11 settembre 2001. E averlo fatto, almeno in parte, ha permesso invece alla Svezia di limitare il numero delle proprie vittime a livelli radicalmente inferiori alla media europea.

Quanto ai problemi energetici e climatici, l’approccio adulto e razionale di Gates e della sua Fondazione è l’antitesi di quello infantile ed emotivo di Greta Thunberg e dei Fridays for Future, che si illudono che le cose cambieranno se loro marinano la scuola e fanno gite in barca a vela.

Ma a convincere i mercati mondiali ad abbattere le emissioni di CO2 non saranno le manifestazioni, bensì le tecnologie innovative che permetteranno di mantenere alti i consumi di una popolazione mondiale sempre crescente: ad esempio, i reattori a onde progressive efficienti, sicuri e puliti, progettati al supercalcolatore e utilizzanti l’uranio 238, che rimpiazzino le centrali nucleari inefficienti, pericolose e sporche, progettate con il regolo e utilizzanti l’uranio 235.

Il prossimo febbraio Gates pubblicherà il suo prossimo libro, Come evitare un disastro climatico. Le soluzioni che abbiamo e le innovazioni che servono, e finalmente il dibattito sull’argomento passerà dagli asili alle università. Poi aspetteremo altri venticinque anni, e chi vivrà vedrà e giudicherà.

© Riproduzione riservata