È un film esemplare, limpido ma non fazioso quello che Dominik Moll ha portato in concorso a Cannes. Dossier 137 racconta la militarizzazione della sicurezza e prende spunto dalle violenze dei corpi speciali della polizia sui gilet gialli in strada a protestare. Un caso anche a margine: all'attore francese Navarro-Mussy è stata negata la partecipazione alla première per tre accuse di violenza sessuale da ex partner
Prometto che non farò riferimento al decreto Sicurezza e alle polemiche che continua a scatenare da noi parlando del film esemplare, limpido ma non fazioso che Dominik Moll porta in concorso a Cannes, Dossier 137. Il regista francese – legato alla “squadra” di cinema sociale che comprendeva anche Laurent Cantet e Robin Campillo – nel 2022 ha vinto i César per il miglior film e il migliore adattamento con un poliziesco, La nuit du 12.
Col suo sceneggiatore di sempre, Gilles Marchand, resta nel ramo legando la narrazione ai violenti scontri del dicembre 2018, con Parigi invasa dai gilets jaunes, il governo nel panico e i corpi speciali inviati caoticamente a spalleggiare la gendarmerie.
Evito di dilungarmi ma la militarizzazione della sicurezza in Francia è ancora un nodo dolente. C’entrano le Bac (Brigate Anticriminalità), le Bri (Brigate di ricerca e intervento), le armi rischiose in dotazione ordinaria, come granate e LBD, fucili speciali e pistole che sparano flash-ball di gomma.
La trama
Stéphanie (Léa Drucker) è una ispettrice-capo dell’Igpn (la cosiddetta “polizia delle polizie”) e occupa un ruolo particolarmente scomodo: indaga sulle violazioni dei colleghi, che la considerano una traditrice, ed è messa alla gogna dai media, che la sospettano di connivenza con gli indagati.
Tra le tante indagini urgenti che scattano con le centinaia di feriti, anche gravi, rimasti sul campo in quel 2018, il film ne segue una capace di metterla in crisi. Perché un ragazzo di Saint-Dizier, cittadina satellite della periferia dove Stéphanie è nata, ha riportato lesioni al cranio gravissime (solo per amor di cronaca 300 persone sono state ferite alla testa in quei giorni). Ma la sua umanità non deve interferire con le indagini. E da madre divorziata suo figlio le rinfaccia: «Tutti odiano i poliziotti».
Non è una indagine alla Imma, Petra, Lolita, Bianca, e scusate se ho perso il conto: abbiamo una produzione tv piuttosto monotona. Gli agenti coinvolti non parlano, non ricordano, e per ricostruire le dinamiche dei fatti bisogna decriptare e confrontare i filmati dei media, dei privati, dei poliziotti, delle telecamere cittadine. Nell’era delle immagini, Dominik Moll costruisce la suspense come Michelangelo Antonioni faceva in Blow Up con le istantanee.
E la realtà ha facce infinite. Il ragazzo ferito, che resterà inabile a vita, era tra i tanti attirati non dalla contestazione politica, non dal vandalismo, ma da quella specie di libertà nelle strade, una scampagnata con la famiglia nella capitale.
E in quel casino agli agenti saltavano i nervi e la testa, sotto insulti e sassate, spiegano i più sinceri. E la pressione delle autorità era tremenda e confusa. Gridavano alla sommossa, alle azioni di guerra, alla salvezza della Repubblica. Molti hanno denunciato un uso sproporzionato della forza pubblica in quelle giornate. Moll analizza i fattori con calma, distacco, imparzialità, ma anche con l’occhio ben attento ai limiti di legge.
Regista e sceneggiatore lavorano di prisma, onestamente e con scrupolo. Impari parecchio sugli ostacoli che anche la più diligente servitrice dello Stato è destinata a incontrare perché l’intera vicenda non venga insabbiata, sulle obiezioni che hanno fatto scuola anche da noi in casi recenti di inseguimento di polizia con morto («scappava, quindi aveva qualcosa da rimproverarsi»).
Stéphanie è rigorosa ma anche molto simpatica. È una che libera un gattino prigioniero di una grata e impara a lavarlo dai video di YouTube. Che la domenica va a trovare i genitori al paese, e al supermercato la madre del ragazzino ferito proprio non ci vuol credere che anche lei sia nata in quel posto da poveri: pretende la sua carta d’identità. Ci sono battute gustose. La madre è una divoratrice di video felini buffi in streaming e il marito la sgrida: «Un giorno ti ritroverai con lo Stato in macerie perché eri troppo occupata a guardare gattini».
Il potere e i poveracci
Per le banlieue i poliziotti sono nemici per definizione, ACAB è un acronimo universale. Appartengono al Potere, ma non ai suoi privilegi. C’è una scena bellissima con i due ispettori in visita a un Hotel cinque stelle del centro, perché una telecamera ha ripreso un testimone potenziale affacciato a un balcone. L’assistente di Stéphanie si guarda intorno incantato, intasca una saponetta profumata nel bagno lussuoso e alla fine chiede timidamente: «Ma per curiosità quanto costa?». Duemila euro. Al giorno.
Testa dura, l’ispettrice indaga in proprio anche fuori orario, segue in metro una cameriera dell’Hotel con la bocca cucita e scopre che ha ripreso col cellulare i momenti chiave della sparatoria. «A chi interessa cosa fanno a noi poveracci? – dice la donna – li vedo quando vengono in banlieue, ti insultano, ti caricano di botte, ti arrestano». Stéphanie: «Indaghiamo anche su quelli». «E quanti ne avete scoperto? Quanti sono stati licenziati? Nessuno».
Come risulta incontestabilmente dal video, due agenti della BRI hanno sparato in simultanea, di spalle, a un ragazzo che scappava. E quando era a terra lo hanno preso a calci, senza soccorrerlo. «Per noi stava bene, non sanguinava. E magari mi avrebbe afferrato a una gamba, mi è sembrato che muovesse una mano». Restano in fermo per 24 ore, ma escono tra gli applausi, su richiesta del sindacato di categoria con beneplacito del governo. Come si possono arrestare due eroi del Bataclan?
Come possono finire in carcere uomini scesi in strada contro un’insurrezione? E il processo successivo finirà in niente perché è incerto quale dei due abbia colpito il ragazzo. Mentre sarà l’ispettrice a finire sotto inchiesta amministrativa per sospetta scorrettezza deontologica. La madre del ferito conosceva sua madre: perché non lo ha detto?
Piccoli contrattempi del vivere, come li chiamava Grace Paley. Da esplorare senza partigianerie, rispettando le ragioni diverse dell’umanità e le ragioni univoche della legalità. E comunque è vero: i video di gattini, anche per rifiatare, sono proprio irresistibili.
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