Si chiama work-life balance (Wlb) ed è l’ultima frontiera di ricerca degli uffici risorse umane aziendali. Riguarda, in parole povere, le tecniche per capitalizzare le connessioni tra vita lavorativa e vita privata dei dipendenti, trasformandole in vantaggi di mercato per l’impresa.

Su questo terreno si muove Scissione (Severance in originale), serie fuori serie di Apple Tv+ scritta da Dan Erickson, co-prodotta  e diretta, per gran parte delle puntate, da un Ben Stiller in stato di grazia.

Spericolatamente impervia e difficilmente catalogabile, tra fantascienza e thriller, con lampi di gelido umorismo, è una sorta di 1984 delle multinazionali hi-tech. Roba da quattro stellette, nelle pagelle dei critici americani, tanto soggiogati quanto sconcertati dalla natura non identificata dell’oggetto.

Perché l’idea base della serie, ossia un microchip installato nel cervello dei dipendenti del colosso Luman Industries all’atto dell’assunzione, è solo il punto di partenza.

Consentendo al dispositivo, gli impiegati accettano uno sdoppiamento irreversibile: sul lavoro sarà cancellata ogni memoria della vita privata, e viceversa.

Ognuno di loro avrà un innie (un sé interno) e un outie (un sé esterno), senza comunicazione cosciente. È una forma di disumanizzazione di evidente – e pericolosamente attraente – funzionalità aziendale.

Ma per chi è attanagliato dai mille dolori dell’esistenza (una bella porzione di umanità, a spanne) quella parentesi di non-coscienza garantita dalle 9 alle 5 può avere i suoi perversi vantaggi.

Il genio di Stiller

Ben Stiller merita un inciso. Grande talento comico, si è rivelato negli anni regista curioso e dotato. Sua la scelta, da medaglia d’oro cinefila, di rivisitare nel 2013 The Secret Life of Walter Mitty (da noi col titolo Sogni proibiti), top di carriera del colpevolmente dimenticato Danny Kaye diretto da Norman Z. McLeod nel 1947.

In proprio ha diretto tra l’altro i fortunati Tropic Thunder e Zoolander 1 e 2 e la miniserie tv Escape at Dannemora. Scissione è una sfida più complessa e più coraggiosa.

Perché la macro-azienda e il micro-universo impiegatizio sotto esame sono il laboratorio in cui si distillano e si perfezionano le tecniche di esercizio del potere, a valere per qualsiasi organismo.

È uno sguardo raggelante, anche stilisticamente. Mark (Adam Scott, bella maschera da fumetto tragico) è uno dei quattro addetti alla sezione Macrodata Refinement, che smista dati da tabulati di cui nessun addetto conosce il significato.

Il team comprende anche Dylan (Zach Cherry), Irving (John Turturro) e la new entry Helly (Britt Lower), che tenterà invano, anche con i mezzi più estremi, di lasciare l’azienda.

La Luman della finzione è un labirinto di spazi disabitati, asettici e ostili, più proiezione di stati d’animo che ambiente reale. Dati da cancellare sui monitor e sentimenti umani da cancellare: è una potenza tecnologica che sembra vivere in modalità “cestino”.

Da questo universo claustrofobico di livido nitore la fotografia di Jessica Lee Gagné riesce a estrarre prospettive inquietanti, sghembe e mutevoli. Chiamiamola pure distopia, ma il sistema di punizioni e risibili incentivi, congegnato per reprimere nei dipendenti ogni spiraglio di autonomia morale e di solidarietà interpersonale, è mutuato direttamente da settori operanti nel nostro mondo reale.

È come se l’estro surreale di Charlie Kaufman riscrivesse Metropolis: l’assurdo della rappresentazione è solo questione di punti di vista. Quello che il doppio universo, reale e virtuale, di Matrix semplificava, Scissione lo complica, e lo impregna di glaciale ironia.

Sessioni di benessere

La fantasia degli esegeti si è esercitata fino a scomodare Samuel Beckett, Eugene Ionesco e Michel Foucault, ma è consigliabile affidarsi alla suggestione diretta e immediata,  per non smarrirsi nel dedalo dei riferimenti possibili.

La minuzia dei dettagli, nella ragnatela di azioni che codificano i ruoli di chi esercita il potere e di chi lo subisce, appartiene più alla buona letteratura che all’ordinaria scrittura “da serie”.

Si disseziona l’ultimo stadio del lavoro atomizzato, che riduce i diritti a due gettoni pro capite per i distributori di cibo confezionato (rigorosamente marca Luman) e combatte l’ansia da alienazione con opprimenti "sessioni di benessere”.

La paura regna sovrana, ma è obbligata a camuffarsi da gratitudine. L’ombrello onnipotente dell’impresa protegge i suoi inquilini da tutto, «anche dalla morte», precisa il capo del personale, una sinistra Patricia Arquette.

Il capo del personale è l’incarnazione suprema del potere, perché i Ceo, alla Luman, compaiono solo in effigie. Gli stagisti possono però godere di occasionali visite-premio a una sorta di museo delle cere dedicato alla dinastia degli Eagan, famiglia regnante, e alla certosina riproduzione della dimora del fondatore Kier, pantofole e spazzolino da denti inclusi.

Uscire dalla segregazione salariata non è dato, ma si può scomparire, da un giorno all’altro e senza motivazioni. Per questo, nel primo  episodio, Mark si ritrova a rimpiazzare senza preavviso l’amico Pete, capo-team fino alla vigilia, svanito nel nulla.

Non è distopia

Non è propriamente distopico, Scissione, perché estremizza processi in corso. La coscienza opaca artificialmente indotta è l’altra faccia dei social, con la loro apparente moltiplicazione illimitata di contatti e informazioni.

Coscienza opaca è ignorare l’uso della propria attività lavorativa. «Magari stiamo togliendo le parolacce dai film», celia il più frivolo degli impiegati.

Fuori, però, è attivo un movimento studentesco di contestazione che mette in guardia contro la sperimentazione di un modello di controllo politico e sociale potenzialmente globale. Il seguito alla seconda stagione, già in pre-produzione.

La credibilità e la coerenza – emotiva e stilistica – di un prodotto così poco ruffiano richiedono interpreti all’altezza. John Turturro, Christopher Walken e Patricia Arquette (protagonista anche della prima serie diretta da Ben Stiller, qui anche produttrice esecutiva con  Adam Scott) fanno la parte del leone, colorando di bizzarrie e fragilità inconfessate, quando non di orrorifica doppiezza, personaggi che in mano ad altri risulterebbero sopra le righe.

Merito anche di quelle loro magnifiche facce lasciate invecchiare secondo natura. L’effetto è di un racconto in cui non esistono secondi ruoli, convenzionali supporting role: ogni pedina è un tassello indispensabile.

Gli attori meno illustri devono reggere il confronto coi mostri sacri senza squilibri, e non è sfida da poco. In questo senso, la serie è anche una illuminante lezione di casting.

La produzione seriale italiana, se vuole adeguarsi agli standard di ultima generazione, dovrà colmare distanze siderali.

Serialità lavorativa

C’è una tradizione consolidata di serie incentrate sulle comunità lavorative: uffici, agenzie, grandi magazzini e consimili.

Scissione esplora però la grande impresa del terzo millennio e la declinazione del potere che la struttura. È curioso osservare che tutto il cinema più recente dedicato alle imprese si focalizza meno  sul conflitto di classe che sulle dinamiche paralizzanti del potere.

Sono segnali d’allarme su nuove forme di totalitarismo strisciante in incubazione, elaborate nelle sedi che per prime hanno imparato a demolire i diritti collettivi e dei singoli.

In modo diverso, questo spostamento di focus accomuna il capitalismo patriarcale illustrato da Il capo perfetto, con Javier Bardèm, e il potere smaterializzato di Un autre monde, che ha chiuso la folgorante "trilogia operaia” di Stéphane Brizé con Vincent Lindon mattatore.

C’è un cortocircuito tra imprese, finanza e pericolanti democrazie occidentali che rende obsoleti gli strumenti cinematografici di analisi del vecchio glorioso Ken Loach.

Ogni contributo di qualità capace di sollevare interrogativi  ed esumare incognite su questa materia è un fertilizzante prezioso per il cervello di tutti noi.

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