Si può giudicare un paese dalle sue priorità? Vale per gli individui come per le persone: decidere cosa è necessario è sempre una scelta di campo. Il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, ha chiuso all’ipotesi dei figuranti a Sanremo, ma il solo fatto che la Rai – il più grande produttore culturale del paese – abbia sostenuto l’idea, decidendo quindi che è necessario fare Sanremo con il pubblico in sala e organizzando un piano per portare 380 figuranti a teatro, è difficile non vederla come una precisa posizione culturale. Soprattutto in un paese in cui cinema e teatri sono chiusi da ottobre, e senza che se ne intraveda – non solo nella prassi ma neanche negli annunci – il minimo segnale di riapertura.

Certo però colpisce questa necessità di avere assolutamente un pubblico nel momento in cui il pubblico, ovunque, non c’è; questa apparente necessità di avere calore; questa necessità di evitare che l’energia di Amadeus vada sprecata, che le spiritosaggini di Fiorello non raccolgano risate incontrollabili, che le discese dalla scalinata non siano accompagnate da ovazioni, che gli echi delle canzoni si spengano nel vuoto, che insomma il grande rito del solstizio sanremese avvenga in un silenzio troppo imbarazzante da sostenere, in cui il pubblico si accorga che il re è nudo, e che è tutta una farsa.

Viene però da chiedersi di cosa sia sintomo questa necessità. E se sia davvero così necessaria, in un paese che, com’è noto, e non certo da oggi, si disinteressa totalmente (e, spesso, con un disinteresse venato di disprezzo) della sua vita culturale. È davvero così necessaria una kermesse che finga una normalità che non esiste più da mesi? È davvero così necessaria una squadra di figuranti, da selezionarsi rigorosamente in coppia, a cui richiedere un’autodichiarazione di convivenza per farli star vicini ed evitare troppi “buchi”?

È necessario mortificare le migliaia di artisti e operatori dello spettacolo che da mesi non solo attraversano indicibili difficoltà economiche, ma sono privati (e chissà per quanto ancora lo saranno) anche di qualsiasi contatto diretto con il loro pubblico? È così necessario evidenziare in modo così umiliante, così «miserabile» (Moni Ovadia), così «volgare» (Gabriele Lavia) la differenza di dignità e di status con cui lo stato tratta la televisione e lo spettacolo dal vivo?

Infine, è così necessaria la finta allegria, la finta festa, la finta leggerezza, la finta normalità di una platea di lugubri figuranti paganti? È così necessario che il mondo nello schermo sembri felice? È così necessario trattare il pubblico italiano come una platea di bambini a cui far credere che “va tutto bene”? No: non va tutto bene. E allora perché sarebbe stata necessaria questa sceneggiata?

Si potrebbe, per presa di posizione culturale e non solo per rispetto dei decreti, anche fare un Sanremo senza pubblico. Un Sanremo anomalo e lunare: come gli stadi deserti, i cinema chiusi e i teatri sbarrati. Un Sanremo vuoto com’è vuoto, oggi, ogni luogo di comunità. Un Sanremo che funzioni anche un po’ come specchio del paese, e non solo come suo trastullo. Un Sanremo straniante e malinconico, in cui per la prima volta s’intraveda il guasto nella macchina, l’anello che non tiene. Un Sanremo in minore, azzoppato dalla verità. Quella verità che ogni tanto trapela fra le crepe della rappresentazione. Magari perfino a Sanremo. Sarebbe un segnale di partecipazione, di immedesimazione, di condivisione col paese di un’emergenza tragica in cui dare un messaggio: comunque se ne esca, si esca tutti insieme. 

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