Una decina di anni fa, era inverno, camminando lungo un viale di Pavia, ho sentito nell’aria strida inconsuete. Ho guardato in alto e ho visto sfrecciare da un platano all’altro come dei dardi verdi. Erano parrocchetti con il collare che facevano un baccano tremendo. Ho scoperto poi che in primavera, per nidificare, si litigavano le cavità nelle mura del Castello con i piccioni che sembravano impacciati e goffi di fronte alla sfrontatezza e all’arroganza dei questi nuovi pennuti.

Sono rimasto tanto sorpreso da questa presenza aliena che ho scritto e illustrato una favola, della serie con protagonista la cicogna Nilou, dedicata proprio all’arrivo dei parrocchetti in pianura, Nilou e le avventure del coraggioso Hadì, Libreria Ticinum Editore, 2018. Sparita la nebbia grassa e la galaverna d’inverno, ecco che si presentano i parrocchetti. Roba da isole tropicali. Questi pappagalli rumorosi li avevo visti e sentiti tra le palme di Roma, e che fossero saliti così a nord, spostando un ideale confine di zona temperata, aveva colpito molto il mio immaginario.

Rondini e parrocchetti

I parrocchetti sono uno dei tanti segnali di un termometro impazzito. Gli scienziati ultimamente confermano ciò che la fauna, in verità, testimonia da qualche decennio, con cambiamenti epocali. Abituati come siamo a vivere nei centri commerciali non sappiamo più cogliere e vedere questi piccoli, grandi sconvolgimenti. Quando da ragazzo, negli anni ottanta, lavoravo in campagna per mantenermi agli studi, vedevo miriadi di rondini che volavano gioiose dietro le motofalciatrici. Mangiavano gli insetti, facevano il nido nelle stalle e si riproducevano a migliaia. Il loro arrivo segnava da secoli l’inizio della stagione primaverile, come ci ricordano ancora tanti proverbi.

Oggi sono quasi sparite. Se ne vedono pochissime, quando, una volta, sui fili della luce, diventavano note di un fantasioso pentagramma: un mio amico artista, distrutto dall’alcol giovanissimo, le aveva pure musicate al pianoforte. Le rondini sono sparite per tante cause. I veleni in primis, che uccidono api e falene, bombi e zanzare che una volta si spiaccicavano sui vetri delle macchine: ora non sporcano più nemmeno quando viaggi in aperta campagna. Inoltre, il cemento dei grandi capannoni aperti per mandrie di oltre mille vacche, ha sostituito il muro delle piccole stalle tradizionali che sostenevano il peso della nidiata.

Oggi, dietro le motofalciatrici o gli aratri si vedono stormi di garzette, di aironi guardabuoi e di aironi cinerini che beccano a terra.

Visioni infernali

Cambia il clima e cambia pure il paesaggio agricolo, con un’agricoltura meccanizzata che sfrutta acqua e terreno, che chiede sempre più fertilizzanti e vuole sempre meno siepi ai confini dei poderi (dove sono finiti i salici lungo i fossi una volta piedi d’acqua?). Cambia il clima e pure la fauna: alcune specie spariscono, quelle alloctone entrano in competizione con quelle autoctone rischiando di sostituirle. L’anno scorso, passando lungo la statale che attraversa la Lomellina verso il lago d’Orta, mi sono imbattuto in una scena quasi surreale. Ho fermato la macchina lungo il ciglio e mi sono trovato di fronte ad un grande spettacolo. Non credevo si miei occhi: centinaia e centinaia di ibis sacri stavano appollaiati su nidi costruiti su piante secolari, condividendo lo spazio con aironi cinerini e garzette. I nuovi nati facevano tentativi di volo, si muovevano agitati di fronte ai vecchi insonnoliti. Il vocìo aveva qualcosa d’infernale. Nelle risaie della Lomellina sempre più secche e lungo le sponde del Po, non è difficile vedere gli ibis sacri affondare il becco ricurvo nella terra umida; ibis che, nel nostro immaginario, si vedevano quando si andava da turisti sul Nilo. Che il Po e la pianura si stiano popolando di fauna tipicamente tropicale, crea di nuovo uno scompenso nel mio immaginario. Chissà perché ho pensato che nelle nostre città i kebab e i ristoranti etnici sono arrivati in contemporanea con la fauna dei loro paesi.

In collina e non solo in Oltrepò pavese, sono tornati gli istrici che si vedevano raramente nelle boscaglie che ricoprono sempre più le colline di questo meraviglioso territorio della Lombardia, che s’incunea a sud del Po come un triangolo fra tre regioni: Emilia Romagna, Liguria e Piemonte. Di notte, girando lungo le colline, tra boschi, radure, grandi vitigni e campi coltivati, non è difficile incontrare faine che attraversano la strada, volpi, istrici e tassi, ma soprattutto cinghiali. Di fianco al mulino di Voghera, in un campo arato che si affaccia sul torrente Staffora, una notte ho illuminato con gli abbaglianti un branco di una trentina di cinghiali.

Anche quella volta l’incontro non ha risparmiato sorprese: i piccoli con le madri stavano raccolti al centro mentre i maschi, attorno, li proteggevano da eventuali aggressori. Qui i cinghiali non vanno accanto alla monnezza e ai cassonetti, come capita nelle grandi città: a Roma vivono nei parchi e vanno in cerca di cibo nelle vie del centro come tanti video e articoli di cronaca raccontano. D’autunno in collina, attraversano le vaste distese di vigneti mangiando l’uva matura. Oltre al danno, una vera beffa per tanti produttori di vino. Gli istrici invece sono una specie protetta e, a differenza del cinghiale, non si possono cacciare. Non bastano i fili elettrici di protezione attorno a orti. Sono da qualche anno un problema serio com’è accaduto qualche anno fa nel modenese: entrano nei campi di patate, di cui vanno ghiotti, ma non mangiano quello che trovano, scavano qua e là, lasciando buchi, perché gli istrici sono esigenti e scelgono solo i tuberi e le piantine migliori. Questi animali selvatici hanno dato segni di follia e comportamenti anomali a causa della siccità prolungata come nel bienno 2017 e 2018 che ha colpito – senza grandi clamori come lo scorso anno – tutto il nord Italia. Lungo i vigneti dell’Oltrepò hanno trovato molti cinghiali morti. Le autopsie dei veterinari, che non si spiegavano questi fatti, hanno dimostrato che erano morti di sete. Ai contadini non restava che raccogliere le carcasse in parte mangiate da altri animali.

Tassi nel cimitero

Un giorno l’amico Amedeo Quaroni, allora sindaco di Montù Beccaria, nell’Oltrepò Pavese, mi raccontò una storia che sembrava inventata. I tassi, a causa della sete e del caldo, erano entrati nel cimitero del paese, riempiendo di terra le tombe di famiglia. Avevano scavato sotto il muro di cinta, e da lì erano sprofondati nelle tombe, andando accanto alle ossa dei morti. Nel fresco del cimitero avevano trovato il luogo ideale per farci la tana, con tutte le conseguenze del caso. Da questo racconto dell’amico Amedeo parte il mio romanzo intitolato La siccità, Bompiani, titolo ispirato anche dal racconto di Romano Bilenchi, uno dei miei autori di riferimento. La siccità l’ho scritto tre anni fa e a suo modo è diventato profetico rispetto agli eventi estremi a cui stiamo assistendo in questi mesi, tra periodo siccitosi che si alternano a violente piogge che la terra, cementata per il caldo, non riesce più ad assorbire. La siccità che sconvolge il comportamento degli animali, era un modo per scrivere un romanzo di formazione, con protagonista un ragazzo, Andrea, e del suo difficile rapporto con la sacralità della terra, in contrasto con i parenti bracconieri e il proprio futuro, in un momento di trasformazione tecnologica e sociale. Le volpi sono al centro del romanzo, volpi grandi e piccole, che durante la siccità si sono avvicinate alle case in cerca di cibo, spesso sfamandosi con le crocchette nelle ciotole di cani e gatti.

La natura non è quel luogo idilliaco che immaginiamo, non è il paradiso terrestre biblico, il locus amoenus letterario e mitologico caro all’Arcadia, spesso sa essere brutale o inospitale. Provate a camminare nelle radure, lungo il Po, dove crescono piante ed erbe selvagge o in un bosco fitto, fuori dai sentieri. Dominare la natura vuol dire rendere abitabili luoghi che spesso sono inospitali. La natura e gli animali soffrono come noi i cambiamenti climatici, siccità e alluvioni. Lo stress influisce sul nostro vivere quotidiano, sconvolgendo comportamenti e modificando i paesaggi che noi stessi abbiamo modificato. I giovani hanno coscienza che siamo immersi nella natura, che la natura non è una presenza che ci sta di fronte, da fruttare e violentare, ma è la nostra casa in cui tutti coabitiamo e dovremmo farlo in armonia con essa. Questa è la vera rivoluzione, un pensiero che gli aborigeni australiani già praticavano qualche millennio fa e che sembra tornato, ahimè, prepotentemente attuale.


La siccità (Bompiani 2023, pp. 192, euro 17), l’ultimo romanzo di Guido Conti, racconta un’estate torrida nell’Oltrepò pavese

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