Se all’anagrafe comunale fu registrato come figlio di NN, e per tutta la sua breve vita si firmò con uno pseudonimo quasi sempre diverso – tra gli altri Andrew Mackenzie, Oreste Nasi, Aldo Colli e Sandro Nedi – all’età di vent’anni Ezio cercò tra le vie di Reggio Emilia uno sconosciuto che di cognome facesse Comparoni, domandandogli di riconoscerlo come suo figlio, così da mantenere quello della madre.

Anche tra i suoi lettori, però, non suona familiare né già orecchiato alcun Ezio Comparoni. Sarà siglando la corrispondenza con l’editore Vallecchi che il misterioso autore inventerà il nom de plume con cui ora è noto.

Da ragazzo leggeva Hemingway, Faulkner, Thomas Wolfe e con gli amici si salutava citando Lord Jim di Conrad o il Bartleby di Melville, e per scrivere una novella alla Cechov, che lui chiamava Cecof, avrebbe «dato ogni cosa e anche più». Qual è il suo pseudonimo più celebre? Silvio D’Arzo. Lo scrittore sconosciuto più conosciuto del Novecento italiano.

Silvio D’Arzo, lo scrittore «straordinario e sfuggente, angelico e diabolico», a detta di Attilio Bertolucci; Silvio D’Arzo l’autore di Casa d’altri, pubblicato un anno dopo la sua morte, che Eugenio Montale definì «un racconto perfetto».

Precoce e sfortunato

Fu precoce almeno quanto poi sarà sfortunato: a sedici anni conseguì la maturità classica da privatista, a ventuno si laureò all’università di Bologna con una tesi in glottologia sul dialetto reggiano e sostenne brillantemente il concorso a Roma con cui ottenne la cattedra di Lettere della sua città.

Frequentato la scuola Ufficiali, fu spedito per il servizio di leva a Como prima, e a Barletta poi, dove due mesi dopo l’armistizio venne fatto prigioniero dai tedeschi. Soltanto la sua prontezza, che gli suggerì di forzare la porta dello scompartimento del treno, gli consentì di salvarsi.

Fuggì per i campi e raggiunse Reggio Emilia, di nuovo a scrivere, di nuovo nell’appartamento che condivideva con la madre al primo piano di via Aschieri numero 4. «Niente al mondo è più bello che scrivere», annotò, «anche male, anche in modo da far ridere la gente».

E fu dunque sfortunato quanto precoce: gli editori rispondevano picche a gran parte delle sue proposte. In una lettera Vallecchi rifiutava il racconto Ragazzo in città con queste parole: «Teniamo ad assicurarVi che lo abbiamo letto con simpatia e piacere… purtroppo la nostra pratica impossibilità ad assumere nuovi impegni è assoluta e irrimediabile».

Poco dopo ecco Einaudi: «Abbiamo letto con vivo interesse il suo racconto, è una cosa certo notevole, ma non ha la densità di un libro: è un’esile novella, di gracile respiro, di vitalità molto tenue».

D’Arzo non lesse, e meno male, la scheda in cui Natalia Ginzburg lo definiva «un racconto certo di grande verità e impegno», ma «con un fiato da passerotto».

Capì presto come sarebbero andate per lui le cose con i grandi editori: «Ci scrivevano divertentissime lettere: nelle prime sei righe ci facevano chiaramente capire che noi potevamo con tutta tranquillità porre la nostra candidatura tra i grandi del secolo: nelle ultime due si rammaricavano che la difficoltà del momento li costringesse a rifiutare l’offerta. Incolpavano il pubblico, eccetera. Soprattutto, si preoccupavano di mostrare a nostro favore una specie di sdegno civile. Facemmo male a pigliarcene: quelle lettere erano degne di noi».

Nella sua fotografia più conosciuta, D’Arzo guarda lontano, sembra portare il broncio per qualcosa che è appena accaduto, i capelli massaggiati con la brillantina ma con il risultato forse imprevisto che appaiono smossi dal vento, e indossa un cappotto dal bavero alto e ampio.

Somiglia a un aviatore appena sceso dal suo abitacolo: e anche se è pressoché certo che non abbia mai volato, è chiaro, però, che avesse confidenza con la leggerezza, con il passo delicato, e, già da questa foto ancora prima che dalle sue pagine tenui, quanto gli fosse familiare la considerazione di Paul Valéry quando scrisse: «Il faut être léger comme l’oiseau, et non comme la plume».

Il miglior modo di leggere D’Arzo, il modo impossibile ma lo stesso ideale, sarebbe di leggerlo seduti nel mezzo di una stanza anecoica, una stanza completamente insonorizzata, con le pareti, il soffitto e il pavimento rivestiti con pannelli in lana di vetro che assorbano qualunque suono e rendano impossibile ogni eco: così si sentirebbe dei suoi racconti il fruscio d’erba medica, lo scrosciare dell’acqua, il crepitare di un albero già morto, i passi sui sentieri invetriati di ghiaccio, e «quegli infiniti rumori che nessuno sa mai cosa siano e che sembrano venir su a poco a poco dal cuore stesso della notte».

Per dirla come forse l’avrebbe detta lui, D’Arzo scriveva come chi, quando qualcuno in quella stessa camera si sta svestendo o rivestendo, si volta verso il muro e, qualunque cosa accada non si girerà finché non sarà certo di poterlo fare. E scriveva ciò che di solito si confessa al buio, con quella stessa sincerità pudica e ritegnosa. Dunque, di spalle e nell’oscurità. Ancora meglio: di spalle, nell’oscurità e nelle narici l’odore di radice bagnata.

La malattia

Nel luglio del 1951 scrive a un amico, dall’ospedale in cui è ricoverato dopo la diagnosi di linfogranuloma: «Sono stanco: avrei molto da lavorare e non posso: le ore della sera, poi, sono interminabili, ed io non ho il minimo sospetto di come andrà a finire».

Aveva lasciato malvolentieri Reggio Emilia per un breve soggiorno curativo sul lago di Garda. «Qui non mangia perché dice che nulla gli sembra pulito se non è il mangiare che gli fa sua madre. Quando era soldato mangiava solo le cose che riceveva da casa! E neppure vuole comprare della roba nelle botteghe perché anche quello non lo trova pulito», scrive un altro suo amico. Silvio D’Arzo morì a Villa Ida il 30 gennaio del 1952, senza neanche aver compiuto trentadue anni.

Negli ultimi giorni, la madre, sapendo che il figlio non avrebbe voluto ricevere nessuno, sedeva nel corridoio, appena fuori della sua stanza, informando delle condizioni sempre più gravi gli amici che erano andati lì per vederlo e parlargli.

Preghiera per gli scrittori

Il 3 aprile 1753, nel giorno in cui firmò il contratto per la redazione del primo dizionario in lingua inglese, Samuel Johnson scrisse la sua Preghiera per gli scrittori:

«Oh Signore, che fino a questo momento mi hai sorretto, concedimi la forza di continuare questa impresa, e il compito della mia intera vita attuale; e quando, alla fine dei miei giorni, dovrò dar conto del talento che mi è stato affidato, ch’io possa ricevere il perdono». Di triste, di disperato c’è che a D’Arzo nessuno, né lui né altri, potrà mai imputare di aver sprecato il suo talento.

La splendida consolazione è quell’aria viola, quei calanchi e quelle creste dei monti viola di Casa d’altri. La splendida consolazione, di contro a un destino editoriale che lo maltrattò e ignorò, sono quelle sette case, l’una addossata all’altra, su strade di sassi e un cortile che tutti chiamano piazza. E l’inverno che dura sei mesi.

E quel prete da sagre e lotterie, vestito per il freddo con due camicie e una cotta, e quella vecchia che ogni sera, al primo buio, con la carriola e la capra, lascia la sua casa al di là del sentiero degli olmi e scende al canale a lavare gli stracci.

La splendida consolazione, in un mondo che sa essere triste persino più di quanto non sappiano esserlo gli uomini, è che quel che si nasconde nell’ombra della tenda nelle ultime righe dell’Elegia della signora Nodier e quella contentezza riservata e prossima a guastarsi per sempre dei Due vecchi, saranno sempre a nostra disposizione.

Non essere riconosciuti

Quando, in una casa nei pressi della Princeton University, una giornalista della Paris Review domandò a Margaret Atwood quale fosse la più grande gratificazione che avesse ricevuto come scrittrice, lei le raccontò questo episodio.

Stava camminando tra le vetrine e la folla di un centro commerciale di Copenhagen, quando vide un gruppo di danzatori Inuit, con i visi dipinti e le coperte di pellicce a impersonare le bestie, gli spiriti e i mostri della loro tradizione. Danzavano, forse. Le dita erano allungate da artigli e strani pezzi di legno nelle bocche ne distorcevano le guance. 

Ringhiavano e rivolgevano versi raccapriccianti ai passanti. Poi, d’un tratto, uno di loro, lasciò il gruppo e le si avvicinò. Quando le fu vicina, prima si tolse il distorsore, e poi le chiese se fosse Margaret Atwood. Lei gli rispose di sì e lui allora le disse molto gentilmente: «Mi piacciono i suoi libri».

Avrò sempre il rammarico, quando riaprirò o richiuderò un suo libro, che Silvio D’Arzo non poté vivere una simile gioia, non poté essere riconosciuto anche lui, lontano da casa, lontano da via Aschieri numero quattro a Reggio Emilia, da qualcuno che lo disturbasse appena un istante, magari mentre lui gironzolava tra i passages parigini, unicamente per dirgli che gli piacevano i suoi racconti.

I due si sarebbero scambiati un sorriso e poi lo sconosciuto sarebbe scomparso mentre lui, ancora per qualche secondo, avrebbe sentito il rumore dei suoi tacchi allontanarsi.

Purtroppo la vita non ebbe alcuna cavalleria nei suoi confronti e mai gli usò una premura dolce e meritata come quella.

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