«Denunciamo lo snaturamento di una maternità pagata al prezzo dell’esclusione»: così Carla Lonzi, nel Manifesto di rivolta femminile del 1970 (ripubblicato un anno fa da La Tartaruga), attaccava il ruolo materno subordinato e recluso che le donne della sua generazione ereditavano dalla tradizione. L’effetto della sua denuncia era paradossale: ribaltava completamente l’idea secondo la quale le donne apparterrebbero “per natura” alla sfera domestica, proprio perché partoriscono i figli, li allattano, li nutrono.

Il fatto che le donne siano le principali protagoniste della riproduzione biologica della specie umana, è stato a lungo usato per giustificare i diversi destini di donne e uomini, l’antica opposizione tra maternità biologica e paternità sociale. Uno dei primi meriti del femminismo è stato proprio la “denaturalizzazione” della maternità, che ha smascherato gli infiniti modi in cui – proprio attorno alla riproduzione biologica – la società organizza materialmente le ineguaglianze e le gerarchie nei rapporti sociali tra i sessi.

Bersaglio di questa “denaturalizzazione” della maternità è stata l’idea stessa di “natura”, da sempre uno dei termini – forse il termine per eccellenza – su cui il linguaggio patriarcale ha fondato le proprie pratiche di assoggettamento delle donne. Un secondo merito della riflessione femminista sulla maternità è stato il successivo recupero della sua “naturalità”, attraverso la riappropriazione della sua esperienza carnale, per riconquistarsi il sapere e il potere relativi a una condizione che «era stata sottratta alle madri per rinforzare il potere dei padri», come scriveva Adrienne Rich in Nato di donna.

La riappropriazione dell’esperienza corporea della maternità ha finito però per caricarsi di nuovi imperativi prescrittivi, all’insegna di una cosiddetta “naturalità” dai risvolti molto ambivalenti. Molti discorsi di recupero del naturale hanno infatti risvolti misogini evidenti: il ruolo materno viene ridotto al suo senso più limitatamente biologico, con ricadute essenzialiste e oppressive, all’insegna del recupero dell’«antica saggezza del corpo femminile» o delle generazioni precedenti, o – senza farsi troppi scrupoli di orientalismo o razzismo – dell’esperienza culture che vengono reputate più prossime alla natura.

Le icone dell’ipermaterno

Quando Lonzi denuncia una maternità “snaturata” invece rifiuta tutti gli aspetti idillici tradizionalmente associati alla maternità “naturale”. Allo stesso modo Adriana Cavarero, una delle più influenti filosofe italiane della differenza sessuale, ha recentemente proposto un ritorno all’esperienza naturale della maternità di segno nuovo e provocatorio.

La ricerca dell’arcaico e del naturale che descrive in Donne che allattano cuccioli di lupo (Castelvecchi 2023) nella direzione di un recupero di una natura che è tutto tranne che idillica: non è un falso ritorno alla natura rousseauiano, quanto un’assunzione della vita anche nei suoi aspetti minacciosi e terribili.

Le «icone dell’ipermaterno» che propone nel suo ultimo libro non sono quelle della "maternità intensiva” o “esclusiva” proposte oggi. Cavarero considera invece la maternità a partire da esempi di quelli che diremmo casi tipici di “madri snaturate”, proposti proprio come icone di una “ipermaternità” che – per la sua vicinanza alla vita (zoé) – non è oppressa, né ridotta alla sua più ristretta funzione riproduttiva.

Il corpo materno che partorisce è considerato alla stessa stregua del corpo materno che abortisce, entrambi partecipi della stessa esperienza del ciclo della riproduzione, in cui la donna ha un ruolo davvero potente proprio perché non è solo un veicolo della generazione, ma ha il potere di generare e di non generare. Ciò che va “contro natura” – nel senso denunciato anche da Lonzi – sembra invece il prezzo disumano pagato dalle maternità tradizionali. Il vero snaturamento è quello della madre “addomesticata”, rinchiusa in casa il più possibile, limitata alla sfera dei doveri (decisi dai padri) verso i figli e la famiglia, quella madre che “canticchiava stirando” – e che Annie Ernaux sente di “uccidere” dentro di sé con il suo aborto a vent’anni, descritto ne L’evento.

La potenza della zoé viene invece incarnata dalle giovani madri baccanti, che si abbandonano a riti dionisiaci e dimenticano i figli a casa, e che quando hanno i seni gonfi di latte, anziché tornare dai propri bambini, allattano i cuccioli di cerbiatto e di lupo che incontrano nel bosco. L’ipermaterno di Cavarero sovverte così l’immagine tradizionale della madre: rifiuta la domesticità, delega la cura dei figli, assume pienamente il potere di decidere se e come usare la propria potenza generativa.

È un invito a intendere la natura generativa in modo debordante, esprimendo la funzione materna ben al di là del ruolo limitato che le viene solitamente accordato, considerando roba da nulla tutto il resto che le donne mettono al mondo. La ridefinizione del rapporto materno con la natura trascinerà poi con sé inevitabilmente una simmetrica evoluzione del rapporto maschile con la natura, e con la paternità. Come scriveva sempre Lonzi, «non è il figlio che ci ha fatte schiave, ma il padre».

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