Non c’è una modo corretto per dirlo. Ma che la mitologia su John Fitzgerald Kennedy, segnatamente in Italia, sia figlia della sua morte è qualcosa di più che un’opinione. Ogni 22 novembre, dagli anni Sessanta in poi, si è materializzato una specie di mostro semovente, rubricato come “l’assassinio di Kennedy”. Un argomento ormai libero da legami con l’intervento militare in Vietnam, gli Stati Uniti della segregazione razziale, la lotta di JFK contro le famiglie mafiose, la Cuba di Castro e i repubblicanesimo spinto dei petrolieri sudisti.

La domanda su chi abbia ucciso Kennedy si è liberata pure della vittima, un presidente in carica assassinato a 46 anni mentre stava per raggiungere un banchetto elettorale in un centro commerciale a Dallas, ed è diventata un corso di laurea specialistico nel cui esame di ammissione non si può non sapere chi fosse non solo Abraham Zapruder, il sarto che per puro caso filmò uno degli eventi più tragici e divisivi della storia contemporanea, ma tutti i personaggi del cast.

Dal custode (Roy Truly) che accompagnò il primo poliziotto (Marrion Baker) su per le scale del deposito di libri al ferroviere (Lee Bowers) che sostenne di aver visto «del fumo dalla staccionata», come se qualcuno avesse sparato da davanti e non da dietro come sostiene la versione ufficiale. Fino all’ignaro spettatore (James Tague) che fu colpito da un frammento di proiettile accanto al sottopassaggio.

Come capita spesso esiste una setta di iniziati che dibatte, spesso senza alcuna cognizione di causa, di traiettorie, ferite e raggi X contraffatti, e che esclude dalla tavola rotonda chiunque non sappia citare a menadito nomi, cognomi e date di nascita dei coniugi che ospitarono Lee e Marina Oswald nei mesi che precedettero l’attentato. Ah, sì: i signori Michael e Ruth Paine.

Il film di Oliver Stone

Nei primi anni Novanta, a forza di cavillare sulla pallottola magica e su quale cecchino stazionasse al sesto piano del deposito di libri, il circo stava sbaraccando e in Dealey Plaza, a Dallas, i turisti non si radunavano più sulla collinetta per osservare la strada su cui passò la Lincoln presidenziale. Ci pensò Oliver Stone a infiammare il dibattito smorto con il suo JFK – Un caso ancora aperto, un film dall’attendibilità inversamente proporzionale al successo e all’effetto scenico.

Altri trent’anni e Stone, che evidentemente non si è rassegnato, torna alla carica con una produzione in onda questa settimana, ovviamente a partire da oggi, 22 novembre, ispirata al suo lavoro del 1991. Si chiama JFK: destiny betrayed ed è una miniserie in quattro puntate – trasmessa da Sky Documentaries per intero, mentre il suo sunto JFK revisited: through the looking glass passerà su Rai 3 – grazie alla quale, parole di Stone, si stabilirà una volta per tutte che «le teorie della cospirazione sono diventati fatti della cospirazione».

La confezione è curata. Le voci narranti, la suadente Whoopi Goldberg e Donald Sutherland, già straordinario Mister X nel film di Stone quando impersonò il perno della teoria del complotto (difatti era un personaggio di fantasia), non riescono però a distogliere uno sguardo attento da una considerazione, chiara fin da principio: il regista è rimasto fermo al 1991. Azzardando la metafora, somiglia al Bjorn Borg che in quello stesso anno aveva tentato il rientro alle competizioni, armato di una triste e anacronistica racchettina di legno.

Ripropone cavalli di battaglia ormai archiviati dalla scienza e dalla storia, e che solo chi vuol credere a tutti i costi alla cospirazione e si rifiuta di consegnare l’esistenza di un mito a un deficiente capace di uccidere per “lasciare un segno” può prendere per buoni. Riesce addirittura a riesumare il patetico dottor Crenshaw, un medico in forza al Parkland Hospital che ebbe a che fare con il corpo del Kennedy morente all’incirca come l’usciere, e che passò il resto della vita a tentare inutilmente di ritagliarsi un ruolo in quella tragedia mondiale, ricavandone l’ostracismo degli indignati colleghi di reparto.

Per contro, il giovane e sfortunato chirurgo Malcolm Perry, un medico da pronto soccorso che un giorno qualunque, invece di un bambino punto da un’ape si trovò davvero steso sulla lettiga JFK in preda agli spasmi e con la testa fatta esplodere da una fucilata, viene nuovamente sottoposto alla gogna di Stone per una frase detta a caldo, senza alcuna esperienza di patologia forense: «Il colpo alla gola proveniva da davanti». Perry, che mai più volle tornare sull’argomento e decise di soffrire in silenzio fino alla morte, fu crocifisso a quella dichiarazione poi rettificata; a nulla valse spiegare che la sua priorità era effettuare una tracheotomia, e che le risultanze dell’autopsia contraddicevano chiaramente quel suo parere avventato. Suo malgrado, divenne il simbolo dell’istituzione corrotta al servizio della macchinazione contro Kennedy.

Le ricostruzioni scientifiche

La docuserie, tra filmati sbiaditi e documenti desecretati – ne sono stati liberati a milioni, grazie alla legislazione sulla trasparenza, e ovviamente non s’è trovata alcuna prova di complotto – evita accuratamente tutte le ricostruzioni scientifiche che, a partire dagli anni Duemila, hanno stabilito alcuni punti fermi. E cioè: non è vero che Kennedy fu attinto da davanti e che la sua testa andò all’indietro come colpita da un pugno (una pallottola perforante non si comporta come un gancio destro al mento). Non è vero che la pallottola sparata da dietro fu “magica”, non andò a ziz-zag, non si fermò a mezz’aria, non rimase intatta. Esperimenti con manichini balistici lo hanno dimostrato senza tema di smentita. E non è vero che l’arma di Oswald, il Carcano in dotazione al nostro esercito negli anni Quaranta, fosse un ferrovecchio inutilizzabile. Esistono filmati che riprendono cacciatori in grado di colpire bersagli negli stessi tempi di Oswald e a distanze di dieci volte superiori. Ma Stone non ci vuole sentire: prova ancora a mettere in dubbio che quel fucile possa essere arrivato alla casella postale di Oswald, ripropone pareri balistici già superati nel 1970, cavilla sull’addetto stampa di Kennedy che, sconvolto, annunciò che il presidente era morto per «un colpo alla testa» mimato con un indice alla tempia. Una prova che i cecchini fossero almeno due, secondo lui.

Dal punto di vista politico, rispetto alla tesi del 1991 che indicò i mandanti come una cupola formata da Congresso, Lyndon Johnson, militari, affaristi, Cia e Fbi per levarsi di mezzo un presidente democratico e pacifista, nel 2021 Stone aggiunge l’interesse di JFK perché l’Africa venisse decolonializzata e riconquistasse la sua libertà. Un argomento di presa più facile oggi, rispetto ad allora, e buttato lì in mezzo a dichiarazioni – di assoluto controcanto rispetto alla moltitudine di colleghi occupatisi del caso – del patologo più chiacchierato d’America, Cyril Wecht. Un professionista del presenzialismo televisivo a dispetto dei suoi 90 anni. Immancabili, giacché si tratta di una rimpatriata, le comparse dei defunti Marguerite Claverie e Mark Lane: lei, disgraziatissima madre di Lee Oswald che si occupò di lui solo da morto, per fare cassa con interviste deliranti sul ruolo del figlio come agente segreto. Lui, uno scaltro avvocato di quelli che si offrono di seguire gratis clienti squattrinati di casi illustri. Per buon cuore, si intende.

In cerca di fama

Purtroppo, a spegnere la vita di John Fitzgerald Kennedy fu proprio un mentecatto senza arte né parte di nome Lee Harvey Oswald. Un signor nessuno in cerca di fama, già disertore e poi sedicente marxista, già autore di un attentato non riuscito ai danni di un militare di estrema destra. Quel 22 novembre andò al lavoro facendosi dare un passaggio (dal vicino di casa Wesley Buell Frazier, altro nome utile per la tessera della setta) e portandosi dietro, guarda caso, un pacco oblungo. Lavorava, guarda caso, al sesto piano del deposito, dove fu poi trovato un fucile, il suo, con una impronta palmare sul calcio, la sua. Aspettò che l’auto di Kennedy girasse l’angolo in Elm Street e che nessuno guardasse più nella sua direzione. Dopo gli spari, guarda caso, scappò dalla palazzina senza chiedere un permesso di lavoro. Nel pomeriggio, guarda caso, venne fermato per un controllo e sparò a un agente, ammazzando pure lui.

Avesse sbagliato mira, sarebbe diventato un qualunque John Hinckley – e là, davvero, Reagan fu colpito da una pallottola magica, che rimbalzò come la palla del flipper, ma nessun morto quindi nessun cui prodest sui cui costruire storie, nessun Oliver Stone che ne fa l’epopea del regicidio per eccellenza. Invece Oswald andò a segno, lui e il suo progetto di passare alla storia. Senza volerlo, però, conferì santità alla sua vittima, su cui nulla si può più dire, qui da noi. Salvo che sia stato il presidente più bello, arguto, progressista e lungimirante della storia. E chi si permette di rovinare il racconto, si merita gli sguardi sprezzanti di quelli che non si fanno fregare da “loro” e dalla favoletta per il popolo bue, quella del cecchino solitario. Perché la morte di un mito può mai essere banale come tre spari con un residuato bellico a un’auto di passaggio, in periferia di una brutta città, all’ora di pranzo di venerdì?

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