Caro Walter,

scusa il ritardo con cui ti scrivo, ma mi trovo nella città dei morti (inviato del giornale su cui anche tu scrivi), impegnato in incontri e interviste con persone che stanno qui, che sono più vive dei vivi e che hanno ancora molte cose da dirci. Così ci ho messo un po’ di tempo prima di venire a conoscenza del dibattito che hai suscitato con il tuo ultimo libro, i tuoi articoli e le tue interviste, che si possono leggere in rete anche qui, mentre Amazon non arriva ancora nella città dei morti. Perciò, non avendo potuto ancora leggere direttamente il libro, prendi le cose che ti dirò come mie considerazioni generali, dove ci sono anche tutte le mie tensioni, le mie passioni e le mie elezioni.

Prima di tutto ti ringrazio per avere gettato il sasso nello stagno. Come puoi immaginare, la riflessione che hai portato alla luce mi interessa e appassiona, perché sono decenni, – fin dal mio difficile esordio come scrittore – che combatto contro il generale ed epocale depotenziamento della parola scritta e della sua possibile forza irradiante, figurale, prefigurativa, di invenzione e pensiero, contro il suo appiattimento, la sua riduzione a una condizione ancillare, che parte da molto lontano e che ha assunto via via varie forme nel corso del tempo. E che nella seconda metà del Novecento ha assunto la forma di un autospossessamento e autocastrazione da parte degli scrittori stessi, di una sorta di nichilismo soft del tutto congeniale alla dimensione economica, finanziaria e digitale del mondo, con la sua interscambiabilità orizzontale delle vite e dei corpi, dell’edificazione negativa dopo quella positiva precedente, dell’irrilevanza, della letteratura intesa come gioco autoreferenziale e di specchi, di una visione del mondo chiusa e consolatoria invece che tragica e aperta. Dove tutto non può che essere ripetizione e déjà vu, proprio mentre ci troviamo di fronte a esperienze mai conosciute prima, come singoli e come specie. Tanto che, in qualche caso, la letteratura autoproclamatasi “alta” è stata scavalcata per radicalità conoscitiva, forza eversiva e profondità da autori che si muovevano nel fango della vita e nella cosiddetta letteratura bassa e “di genere” che, nei suoi esiti migliori, ci poneva di fronte a temi espunti da un mondo culturale ormai pacificato e arreso che stava facendo da tempo il controllo del territorio e dell’esistente: la vita, il dolore, la morte, l’irriducibile presenza del male nel mondo, la duplicazione... Il tutto proprio in un’epoca di possibili e preannunciate catastrofi, in anni in cui ci sarebbe invece bisogno di attingere a tutte le forze e invenzioni dormienti che si possono liberare a volte nel regno incontrollabile della letteratura.

La parte sommersa

In questi anni, ormai archiviata la sua parentesi tristemente e senilmente ludica, la letteratura o ciò che viene chiamata tale sta assumendo in molti casi la forma di un più gestibile genere letterario umanisticheggiante, di pronto consumo giornalistico e morale – o meglio moralistico – in cui gli scrittori devono fare sfoggio di virtù o cercare un’identificazione al ribasso per essere considerati utili al prossimo e venire messi mediaticamente in circolo.

Invece tutta la storia di quella cosa che è stata chiamata con il nome insiemistico e riduttivo di letteratura ci dice tutt’altro. Ci dice che la letteratura non è uno spazio garantito e protetto, che è anche quella attraversata dal dolore e dal male e che proprio per questo, proprio per questa conoscenza ravvicinata, è in grado di fronteggiarli, di guardare in faccia la Medusa. Ci dice che non basta salire sul pulpito dei presunti virtuosi e dei “buoni” per diventare degli scrittori e portare in luce verità profonde e magari negate, per essere degli inventori, dei tracimatori. Ci dice che ci sono scrittori che hanno messo al mondo opere illuminanti e laceranti ma che erano umanamente peggiori delle proprie opere o addirittura dei figli di puttana.

Ci dice che non basta, come scriveva Proust, esibire il cartellino moralistico del prezzo per dare valore a quello che si scrive, che bisogna portare in superficie anche la parte sommersa dell’iceberg, sfondare lo specchio in cui siamo imprigionati per poter passare dall’altra parte. Ci dice che la letteratura non è un travaso, una trascrizione di conoscenze pregresse ma un terreno di invenzione, di rischio, che avviene nel momento stesso in cui avviene, che attinge a zone più inabissate, segrete e ulteriori, dove può accadere qualcosa che oltrepassa lo scrittore stesso e persino lo spirito del tempo e la contemporaneità.

È un discorso grosso, lo so, grosso e maledettamente scomodo, che se portato a fondo coinvolgerebbe molte altre categorie di pensiero assodate e intoccabili: qualità e quantità (dove la quantità, nuovo idolo di questa epoca, viene vista come più importante della qualità), e persino gli stessi statuti politici della democrazia, che a mio parere, per essere veramente tale, dovrebbe creare le condizioni per elevare il maggior numero possibile di persone, non per abbassare tutti al livello più basso, dovrebbe volare alto e dire che si può anche volare alto.

Il potere delle masse

Lo spettacolo invece è tutt’altro, anche nel mondo della cultura, dei media e del giornalismo culturale. Più uno vola basso e più viene premiato, più viene visto come vicino al “popolo”. Si avversa il “populismo” in politica mentre lo si pratica nella gestione giornalistica e mediatica della cultura e della letteratura, perché il meccanismo che porta lettori o spettatori è quello – o si crede che sia quello e solo quello – il tutto da parte degli stessi che magari lo combattono con maggiore accanimento nella politica. Come se il numero avesse sempre ragione, come se le maggioranze, culturali o elettorali, avessero sempre ragione, anche quando bocciano Moby Dick, anche quando eleggono Hitler. Come se, nel corso del tempo, non fossero invece delle minoranze che hanno saputo resistere alla corrente e aprire nuove e diverse strade.

Le parole non sono neutrali

Io vengo dal basso, dal freddo, dal trauma, dall’esclusione. Prima di diventare scrittore ho vissuto le esperienze più disparate, ho conosciuto le persone più neglette e invisibili, gli ultimi della fila, e sono stato uno di loro. Perciò non mi vengano a dire, quelli che hanno sempre avuto il culo culturalmente al caldo, che sarei “elitario”. Dico questo proprio perché vengo da questa terra di nessuno, perché so che si può salire irresistibilmente anche dal basso, da sotto terra, che si possono sempre rifiutare e sconvolgere i giochi chiusi e le strutture bloccate, che la letteratura può essere anche, come è sempre stata, eversiva nei confronti dell’esistente.

E veniamo adesso alla parola “impegno”.

Nel Novecento ha preso piede questa parola, sconosciuta in tale forma ai grandi scrittori del passato, per indicare una letteratura secolarizzata e attenta soprattutto alla dimensione storico-politica e sociale dell’uomo, come se questa fosse l’unica dimensione della vita e del mondo.

Eppure anche molti degli scrittori dei secoli passati avevano delle convinzioni, delle passioni e le hanno espresse con forza nelle loro opere, cosa che non ha impedito loro di essere grandi scrittori e non ha diminuito il valore artistico delle loro creazioni. Le tensioni che prima potevano venire chiamate, appunto, convinzioni, passioni o magari anche, leopardianamente, illusioni, sono state rinominate e cristallizzate con questa parola dimezzata, sia che la si prenda in senso positivo che negativo. È stata coniata questa parola che vuole dire tutto e non vuol dire niente. A me pare che Leopardi, Emily Dickinson, Kafka… non siano certo meno “impegnati” di altri scrittori che hanno posto l’impegno sociale e civile come unico campo, scopo e missione della letteratura. Se ho capito bene tu, in qualche modo e forma, salvi Sartre e il suo engagement. Ma a me pare che la sua idea di letteratura espressa in Che cos’è la letteratura, che assegna a questa forza un ruolo sovrastrutturale subordinato rispetto alle configurazioni storiche, economiche e sociali dell’uomo, abbia favorito una distorsione culturale e mentale (forse frutto della frustrazione del proprio autore, che non poteva essere quello che avrebbe voluto essere e allora ha dovuto abbassare i possibili), abbia creato un enorme equivoco che si perpetua proprio perché è facile da gestire da parte di un personale intellettuale in perdita di status e perché fornisce un alibi, perché sembra mettere tutte le cose sotto un antropocentrico e culturale controllo.

Come se l’Iliade, la Divina Commedia fossero espressione solo della Grecia del periodo miceneo o del nostro Medioevo e non, anche, di qualcosa d’altro e di più. Ma allora perché il monarchico Honoré de Balzac oppure il reazionario Fëdor Dostoevskij, anche se non condividiamo molte delle loro posizioni, continuano a parlarci attraverso i secoli? Perché il combattente di Lepanto e il suo irriducibile cavaliere continuiamo a sentirli come parte di noi?

Le parole non sono innocenti, le parole possono venire usate come dei grimaldelli, le parole sono un terreno di guerra, attraverso le parole, il loro possesso e il loro uso avviene una guerra mortale.

Impegno e disimpegno

A me in realtà, se devo dirtela tutta, mi stanno stretti sia ciò che si intende per “impegno” sia ciò che si intende per “disimpegno”. Mi sembrano una semplificazione e una piccola lente per guardare la letteratura. Però so bene che sono le semplificazioni a funzionare mediaticamente, proprio perché rimettono in circolazione schemi e antinomie precedenti e già conosciuti, perché non comportano lo sforzo di terremotarli e di andare verso una nuova invenzione.

Perché quelli che mediaticamente “funzionano” sono i conflitti semplificati e polarizzati. A me pare che, nel corso del tempo, ci siano state opere originali e grandi sia tra quelle che si potrebbero semplicisticamente definire “impegnate” che tra quelle che altrettanto semplicisticamente si potrebbero definire “disimpegnate”.

Sono grandi, anche letterariamente e artisticamente, I miserabili, I demoni, I promessi sposi, le opere di Lev Tolstoj e di Charles Dickens non meno di quelle di Charles Baudelaire, di Gustave Flaubert, ritenuti schematicamente come campioni dell’art pour l’art, di Franz Kafka, di Samuel Beckett… che hanno espresso il loro “impegno” in un altro e non meno cruciale modo.

E che dire di questa antinomia oggi? Che dire della cosa enorme che ci sovrasta, dell’innalzamento climatico, dell’emergenza di specie che aleggia sulle nostre vite? Uno scrittore dovrebbe girare la testa dall’altra parte, mentre i morantiani “ragazzini” cercano di salvare il mondo? Sarebbe questo e solo questo il ruolo del vero scrittore? Quello di essere una persona residuale, unidimensionale, dimezzata, chiusa in un piccolo recinto formale e in una prigione culturale accettata, proprio mentre questa prospettiva di specie spacca in due ogni cosa e anche i presupposti culturali e mentali su cui si fonda la nostra specie? Quello di essere una persona e una funzione che non possono più dare niente, essere lievito di niente, e che quindi verranno oltrepassate?

Caro Walter, lo so, il tuo discorso non è questo, tu stai dicendo altro e di più, e io apprezzo che tu abbia sollevato questo problema cruciale e abbia messo il dito nella piaga. Tu sei una persona intelligente, di grande spessore e cultura e capace di passioni. Perciò diciamo che queste mie considerazioni sono anche, come suol dirsi, un modo di parlare alla nuora per farsi intendere dalla suocera.

Un’ultima considerazione sullo “stile”.

Anche questa parola, come la parola “impegno”, è stata sottoposta nel corso del tempo a una distorsione e stilizzazione, è diventata sinonimo non di un modo di essere ciò che si è e di un’invenzione ma di un lavorìo puramente specialistico sulla parola e la frase, di un piccolo marchio di fabbrica che contraddistinguerebbe un vero scrittore da un altro. Per me, come credo anche per te, non è così.

Forma e contenuto

La spinta inventiva e conoscitiva, il pensiero e la forma che la parola assume nel passaggio scritto sono una cosa sola, sono indivisibili, ciascuna delle due urgenze suscita e rilancia l’altra creando moltiplicazione, avventura, imprevisto. Forma e contenuto (due altre semplificazioni antinomiche) sono inestricabilmente abbracciati. Si sente dire e si legge che un giovane scrittore, per essere o apparire tale, dovrebbe per prima cosa forgiarsi uno stile. Come se si trattasse di una cosa separata, come se si trattasse di imparare a caratterizzare e personalizzare aprioristicamente le proprie frasi, mentre queste sono evocate e agite anche da una spinta dicente che riesce a trovare le parole e le frasi, le quali a loro volta suscitano nuova dicibilità, invenzione, prefigurazione, pensiero.

È incredibile questa facoltà della letteratura: una persona può mentire bene e imbrogliarci, ma sulla pagina non ce la fa o non ce la fa per molto, si vede sùbito, si vede tutto, si vede se non c’è proporzionalità, se non c’è nient’altro, se le frasi girano bellamente a vuoto e si specchiano solo in sé stesse, se sono dentro una dimensione pubblicitaria a autopubblicitaria della letteratura.

Anche questa separazione tra contenuto e forma, o stile, è un’invenzione moderna e al ribasso, è sintomo di una deriva specialistica e residuale della letteratura e di una sua introiettata ineffettualità. Nei grandi scrittori del passato la cosa non era vissuta così, anche se erano coscienti dell’importanza e della forza del loro magistero e lavoravano duramente sulle parole e le frasi per trovare concentrazione figurale, espressiva, mentale, atomica. Perché il pensare attraverso le immagini e il racconto dovevano trovare il modo e la forma per configurarsi e avere efficacia, dovevano trovare una possibilità di traboccamento e di sfondamento attraverso un medium, un avatar che irrompesse nel mondo e che facesse parte anch’esso della stessa invenzione.

Caro Walter, mi fermo qui, e scusa questa mia lettera forse troppo appassionata e fluviale.

In questo momento ci sono vicino a me alcuni scrittori e poeti che abitano qui nella città dei morti. Ci sono Dante, Shakespeare, il demoniaco Melville, la selvaggia Emily Brőnte, la nevrotica e sublime Emily Dickinson, ci sono anche Dostoevskij, Tolstoj, Kafka, Leopardi, Pasolini, la mia Murasaki, con i suoi lunghi capelli, il suo volto dipinto di bianco e i suoi denti dipinti di nero… Ecco, adesso ti stanno salutando anche loro, con le loro manone, le loro manine…

Ti ringrazio ancora e ti abbraccio,

Antonio

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