Non ho mai creduto al destino. Piuttosto, ho sempre pensato che nella vita d’ognuno esistano dei momenti in cui occasione e necessità incrociano le lame. E credo siano momenti così, il cui significato è palese solo a posteriori, che in bocca hanno sapore di destino: pur accidentali nella loro geometria, il risultato ci pare tanto solido da dover avere per forza un pretesto più profondo.

Di momenti del genere, nella mia breve, e scarsa, esistenza, a onor del vero ne ho vissuti pochi. Due di questi risalgono al 10 e al 14 maggio 2019.

La prima occasione ha incontrato le mie necessità a Torino, nei giorni del Salone del Libro. La seconda a Milano, un pomeriggio umido da uccidere. È stato allora che ho conosciuto Hanne Ørstavik, il 10, e Luigi Spagnol, il 14. Lei è un’autrice norvegese formidabile, capace di una scrittura tanto delicata quanto dolorosa.

Lui è stato un editore tra i più importanti e ha pubblicato, tra gli altri, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare e la saga di Harry Potter. Ed è di lui, di Luigi, che voglio parlare qui oggi. Della volta in cui l’incrocio delle lame di cui parlavo me l’ha fatto incontrare.

Avrei voluto scriverne dopo la sua morte. Dopo quel 14 giugno 2020 in cui a Catania, dov’ero quando è giunta la notizia della sua dipartita, c’era un sole esagerato per un giorno tanto greve. Ma tutte le volte che mi balenava in mente l’idea di proporre un pezzo su di lui, mi dicevo che non era il caso; sarebbe come se uno scarafaggio volesse tracciare un gigante, pensavo.

Pochi giorni fa, però, è successa una cosa – di cui dirò tra poco – e, peccando forse di presunzione, mi sono trovato a pensare che questa è l’occasione giusta. Che ci posso provare, a raccontare Luigi. La cena al ristorante etnico. L’aperitivo al baretto minuscolo. La sera in casa sua, quando l’ho conosciuto.

Ecco. La sera in casa sua. L’occasione del 14 maggio.

La settimana prima ero stato al Salone del Libro, appunto, e tra le altre mi era stata affidata dal mio capo redattore l’intervista a un’autrice norvegese di cui sapevo poco. Quel giorno abbiamo parlato tanto, io e Hanne. Di Amore, uno dei suoi quindici romanzi. Di letteratura; Camus e Saramago. Dell’Italia, in cui viveva da poco.

A fine chiacchierata, poi, mi ha invitato a casa sua per un aperitivo. Vieni la prossima settimana a Milano, ha detto, devi conoscere mio marito. Io non lo sapevo, chi fosse il marito, ma parlare con lei di libri era stato tanto bello che ho accettato. È stato solo quattro giorni dopo, quando sull’uscio dell’appartamento milanese mi si è parato Luigi, che ho collegato.

Di quella sera ricordo ogni dettaglio. L’emozione, enorme, tra felicità e disagio; non ero che uno sbarbatello in casa di uno dei più grandi editori del paese. Gli sgabelli vietnamiti di cui i due andavano fieri. Le birre analcoliche di Luigi; era già malato. I Negroni miei e di Hanne. Milano che si stiracchiava, morbida, aldilà del terrazzino su cui mi affacciavo per fumare. Le chiacchiere sui libri. I consigli di scrittura di Hanne: «Chiudi il mondo fuori dalla stanza». Gli incoraggiamenti di Luigi: «Scrivi, se è questo che vuoi fare, scrivi e basta».

Ecco ci penso spesso, a quella sera. Perché a Luigi e Hanne devo tanto. Perché questi incontri hanno sapore di destino. Perché ho la sensazione d’aver conosciuto un vero e proprio gigante. Un uomo di grande cultura, con un fiuto incredibile per la letteratura e un amore palpabile per i libri. Conservo i ricordi gelosamente, diamanti nel cumulo di carbone della memoria. E se oggi ne sto scrivendo, sfidando il disagio che mi provoca l’idea di tratteggiare un colosso, è perché qualche giorno fa, come dicevo, è successa una cosa: per Ponte alle Grazie è uscito Ti amo.

È un libriccino, Ti amo. Poche pagine in cui è racchiuso un universo. L’ha scritto Hanne. E racconta gli ultimi mesi di Luigi. Quelli in cui ha lottato contro il tumore che quel 14 giugno se l’è portato via. In cui moglie e marito, scrittrice ed editore, si sono aggrappati l’uno all’altra cercando ogni granello di quella vita che presto sarebbe stata strappata loro dalle mani. È un romanzo di una potenza sconcertante. Struggente, dolorosissimo, crudo. Un romanzo che urla amore e paura e nostalgia, ma con toni piani. È una perla rara. È vera letteratura. E certe pagine ho faticato a mandarle giù.

Lo dico a Hanne, ora, in questo pomeriggio d’inizio novembre; siamo nel suo appartamento, siamo in quell’appartamento.

Le dico che leggendo Ti amo ho proprio sofferto. Le dico che è la verità, quella verità nuda tratteggiata sulla pagina in modo impietoso, ad avermi colpito come una pugnalata.

È tanto importante per te la verità in letteratura?

È fondamentale. Fin da bambina ho avuto la sensazione che il mondo mi mentisse, che non ci fosse niente di vero. E per questo scrivo: in letteratura non c’è finzione. Almeno, così è per me. Così è nei miei libri. Con la scrittura cerco le verità del mondo e, allo stesso tempo, posso dire le mie, di verità.

È questo che hai fatto con Ti amo, hai raccontato la tua verità?

Io e Luigi, nei suoi ultimi mesi di vita, non parlavamo mai della morte. C’era, era ovunque. In casa, in strada, in noi stessi. Ma non ne parlavamo. La morte nella nostra verità non esisteva, Luigi voleva tagliarla fuori, ma io non pensavo ad altro.

La mia verità era fatta di morte, e con questo romanzo, che ho scritto in quel periodo, ho potuto affrontarla. Non potendo vivere la realtà come avrei voluto, per rispettare la volontà di Luigi, l’ho abitata in letteratura.

Perché Luigi non voleva parlare della morte?

Lo sa solo lui. Io mi dico che dev’essere stato per due ragioni. Perché non voleva perdermi, perché voleva stare qui, al mondo, con me, con tutti noi. E perché aveva una paura pazzesca della morte. Luigi aveva una capacità di negare molto forte e preferiva distrarsi. L’ultimo mese di vita spesso guardava documentari sugli animali, credo gli desse conforto, e scriveva moltissimo.

Luigi scriveva?

Sì, sul cellulare lavorava a un giallo di fantascienza, negli ultimi mesi.

Ha sempre scritto?

Credo di sì. Quando l’ho conosciuto era impegnato a scrivere un libro, a mano su un taccuino fitto della sua grafia piccola, su una ragazzina che vive su un albero. Le abbandonava sempre, però, queste sue storie. Non le finiva. La sola cosa che non ha mai abbandonato è stata l’arte.

È stato anche un pittore eccezionale, Luigi.

Sì, e penso abbia avuto il suo massimo nella malattia. Gli ultimi mesi, nella primavera 2020, dipingeva molto. Si rintanava nel suo studio e lavorava anche per otto o nove ore. Metteva la musica classica e dipingeva. E gli ultimi quadri che ha fatto sono stupendi.

Credi ci sia un motivo?

Luigi diceva sempre che ci si deve ammalare, com’era successo a lui, per sentire davvero che la vita ci appartiene. E credo che la sua pittura di quel periodo nascesse da pensieri come questo.

Quel pomeriggio di due anni fa tu e Luigi mi parlaste degli sgabelli vietnamiti di cui parli pure in Ti amo. Perché sono tanto importanti?

È stato il nostro primo viaggio quello, per questo gli sgabelli sono così importanti. Pure se in realtà ogni mobile di questa casa è un pezzo della nostra storia. Quando ho conosciuto Luigi, aveva appena rotto con la sua ex e quando ci siamo trasferiti l’appartamento era vuoto, così abbiamo comprato tutto. Gli sgabelli però ci sono sempre piaciuti tanto. Sono colorati e bassi, starci su era come tornare bimbi, uscire dall’essere adulti.

Altra cosa incredibile che ho letto in Ti amo. Davvero non aveva la patente, Luigi?

È vero! Ma sai, lui era un po’ il personaggio di una fiaba. Viveva qui con noi, ma anche in una sua dimensione. Ed era lì, in quella dimensione, che c’incontravamo io e lui. Pure per questo l’ho amato tanto.

Lo senti accanto a te, oggi?

Lo sento proprio qui, sulla mia spalla. Mi suggerisce le cose, mi aiuta, mi consola, mi incoraggia. È qui con noi, Luigi. In molte cose. È nei libri che ha fatto, nelle persone che he amato. E ci rimarrà per sempre.

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