Era un giovane sui trent’anni, il cui ingegno era limitato unicamente dalla mancanza d’esperienza. Fece il suo ingresso al Ninfeo di Villa Giulia alle 21 in punto, così com’era indicato nel suo invito (per riuscire ad averlo aveva smosso mari e monti nella redazione del giornale per il quale saltuariamente collaborava). Poche cose come il Premio Strega, con la sua festosa decadenza, racchiudono l’essenza di Roma. Gli amici della domenica, i giurati che di anno in anno scelgono il libro vincitore, non somigliano forse a quei patrizi dell’antichità che in Senato ordivano tradimenti e congiure? E che cos’è la letteratura, ormai, se non una splendida rovina?

Il giovane si diresse al tavolo dell’aperitivo con impaccio. A ogni passo sembrava chiedere scusa agli altri convenuti per il solo fatto di essere lì, per la sua presenza così poco di spicco. Osservava tutto con attenzione, questo sì, perché avrebbe voluto imparare in fretta come comportarsi in società. La prima cosa che sentì dire fu: «Non sono le case editrici ad avere un ufficio marketing, sono gli uffici marketing ad avere una casa editrice». La seconda che gli restò impressa invece fu: «Questa moda dei gialli finirà, prima o poi i lettori si annoieranno di scoprire chi è l’assassino».

Poi la sua attenzione venne assorbita da una bella ragazza che indossava un elegante abito rosso Valentino. Le sue clavicole erano così pronunciate da sembrare un inconsueto prezioso, un collier naturale. Stava insieme a una specie di mentore bolso con un competo blu e una camicia azzurra, dall’aria allo stesso tempo dispotica e dozzinale: come un tranviere che fosse arrivato ai vertici dell’Atac.

Il giovane sentì la ragazza lamentarsi. «Sai cosa odio veramente della tv? Il fatto che non digeriscano il mio passato. Che io venga dalla danza classica per loro è un handicap, un fardello di cui mi dovrei quasi scusare. Il mio modo di muovermi è sempre troppo preciso, troppo accurato, troppo categorico».

Hai ragione tu, è ovvio, ma cerca di dargli esattamente quello che chiedono. Maurizio, il regista, cosa ti chiede?

Mi chiede di essere spontanea.

Ecco, allora tu dagli la spontaneità!

Cazzo ma gliela do! Ho cercato di sporcare le mie arabesque, le mie assemblé, le mie attitude. Ho cercato di dimenticare le posizioni dei piedi, tutta l’impostazione tradizionale perché non serve per i loro stacchetti. E qual è stata la ricompensa?

Qual è stata?

Essere costantemente preferita a Sonia. Hai presente Sonia, vero?

Certo che ce l’ho presente.

Ti piace Sonia?

Non ho detto che mi piace, ho detto che ce l’ho presente.

No perché se ti piace con me hai chiuso.

Non dire cretinate.

Cioè, una che fino all’altro ieri insegnava aerobica in palestra. Una che sembra sempre sul punto d’iniziare a gridare: “Avanti ragazzi, tutti insieme, uno, due, tre, quattro!” E poi è vecchia, cioè ha le zampe di gallina intorno agli occhi.

Il tavolo numero 60

Dopo l’aperitivo, il giovane si sistemò a uno dei tanti tavoli circolari che adornavano il giardino come gigantesche margherite – si trattava del numero 60 – e subito si mise a studiare i suoi vicini di posto. Tra tutti, quello seduto alla sua sinistra lo incuriosì per l’abbigliamento eccessivamente elegante, quasi démodé.

«Mi sento così a disagio», provò a dirgli.

L’uomo, secco e allampanato, dal volto oblungo e quasi austero, accennò un sorriso: «Eh no, caro amico, qui il campione dei pesci fuor d’acqua sono io».

Cominciarono a parlare fitto, il giovane confessò le sue velleità letterarie: «Ho paura della pagina bianca».

«E perché?», fece l’uomo, «la pagina bianca è un ottimo inizio, pensi che tutti i più grandi scrittori hanno cominciato così».

E come si fa a proseguire?

A me piace pensare a un libro come una vetta da scalare, è mai stato sulle Dolomiti?

Purtroppo no.

Deve pensare allo scrittore come a un tizio che non ha vertigine della frase.

E quali sono allora le qualità che deve possedere un buon arrampicatore?

La calma.

Il giovane – che era per natura smanioso e sovraeccitabile – guardò l’uomo con gratitudine, ma poi subito dopo scosse il capo: «Ma io sono solo un apprendista. Ecco, che cosa consiglierebbe a un apprendista?»

A quella domanda l’uomo s’infervorò parecchio. Disse che a un apprendista sarebbe servito trascorrere l’infanzia in una casa in campagna, dotata di un giardino, una cantina e una soffitta. Il giardino rappresentava il luogo dell’avventura sfrenata, una prateria western da popolare di cowboy e indiani, da sfrecciarci in bicicletta come su un cavallo, ma anche il posto dove si poteva analizzare la natura (la più fantastica tra tutte le cose), mettere dentro a barattoli api e lumache, dare l’assalto a formichieri, studiare minuziosamente le foglie degli alberi, e i fiori, e i frutti – vere entità aliene. La cantina erano gli inferi, il pertugio attraverso cui raggiungere il centro della terra, il posto dove si tenevano le bottiglie di vino e le conserve di marmellata, con quel fresco soprannaturale che vi ristagnava in tutte le stagioni dell’anno, e quelle scaffalature infinite, di cui nessuno conosceva davvero la fine, neanche con la scala lunga del nonno ci si arrivava (e il nonno con quella ci riparava le tegole del tetto, mica scherzi), e poi era il luogo della punizione, della detenzione dei bambini monelli, della prigionia e della contrizione in attesa di essere riammessi nelle stanze ufficiali della casa; la soffitta era l’ascesa nel mondo degli spiriti e dei segreti, ogni soffitta aveva almeno un fantasma e un baule pieno di misteri, fasci di lettere private, tesori d’argenteria, e poi c’era il lucernario da cui si aveva un punto di vista inedito su tutte le cose della casa, sopraelevato, era lo spazio delle vecchie poltrone con le molle saltate ricoperte da un lenzuolo polveroso – di per sé l’immagine era già un fantasma –, e più in generale era il regno della polvere e delle ragnatele, degli insetti più spaventosi, quelli costretti nei tubi o nelle intercapedini dei muri.

«La ringrazio davvero molto», disse il giovane, esterrefatto al cospetto di quelle parole, «anche se io sono cresciuto in un appartamento di città».

L’uomo ci pensò un po’ su. «Ancora meglio, in fondo il compito di uno scrittore è solo uno: allenare l’immaginazione. Meno cose ha, meglio è».

La cena

Torme di camerieri in livrea bianca depositarono alcuni grandi vassoi d’argento sui tavoli del buffet, segno inequivocabile che l’apertura della cena era stata sancita. Subito alcune vecchie agghindate come aristocratiche lasciarono i rispettivi tavoli e sgambettarono verso il banchetto appena approntato, impreziosendo i rancidi décolleté con briciole di pane. E in generale in pochi istanti la zona riservata al pasto in piedi fu ricolma di gente – la crème de la crème – che sembrava appena uscita da un lungo periodo di digiuno. La compitezza e le buone maniere che si sgretolano dinnanzi a delle mozzarelle di bufala, esiste un mistero più grande?

Il giovane venne quasi travolto dalla fiumana di persone che immediatamente si diressero verso il banchetto, tant’è che quasi suo malgrado dovette alzarsi e mettersi in coda per un piatto di pasta con le trofie. E con sua grande sorpresa ritrovò la ragazza con l’abito rosso Valentino e il suo mentore bolso.

«Non puoi telefonare tu a Maurizio?» chiedeva con insistenza la ragazza.

E per chiedergli cosa?

Per questa cosa di Sonia.

Ma dai, mettiti nei miei panni, io non posso mica telefonare al regista per insegnargli il suo lavoro, ma poi cosa c’entri tu con Sonia, lo sanno tutti che sei la più brava.

Maurizio è un paraculo, dà ragione a me quando lavora con me e dà ragione a Sonia quando lavora con Sonia.

Sei sicura? Non sei soltanto andata in paranoia?

Guarda, sono sicura, Quando sta con me dice che senz’altro sono la ballerina più brava, che il mio pedigree è superiore eccetera. Poi quando sta con Sonia dice che lei ha più esperienze di me da sublimare nel ballo.

Cosa dice?

La ragazza sbuffò: «Insomma la fai o non la fai questa telefonata?»

Il mentore scosse la testa: «Io telefono ai produttori o ai direttori di rete, non posso abbassarmi a telefonare a un regista, lo capisci?»

L’ebrezza dei tasti

Quando il giovane tornò al tavolo 60 l’uomo se ne stava ancora lì, lo sguardo perso a fissare davanti a sé.

«Non ha preso le trofie?» gli chiese il giovane.

«Stasera ho lo stomaco chiuso, un po’ di tensione».

Il giovane allora tornò sulle questioni che più lo interessavano: «L’immaginazione è tutto, l’ho capito. Ma avrebbe consigli altrettanto illuminanti sullo scrivere?»

«Non ne ho», ammise l’uomo, stringendosi nelle spalle. «Ma se vuole posso parlarle dell’ebbrezza dei tasti».

Il giovane gli disse che ne sarebbe stato entusiasta e l’uomo attaccò spedito. Secondo lui uno scrittore era soprattutto un drogato della tastiera. E il suo lavoro, per il resto immateriale (tutto basato su impalpabili fortune mentali), si basava unicamente sulla ripetizione di un gesto elementare: il premere dei pulsanti. La voluttà, tutta la voluttà possibile, consisteva nel picchiettare su dei tasti, raggiungendo attraverso di essi una specie di trance sciamanico, che tutto sommato era alla portata di un genio come di un dattilografo. Era un trip tattile, anzitutto, ma anche sonoro, in grado di portarti realmente fuori dal tempo e dallo spazio conosciuti, era un po’ come mangiarsi un fungo allucinogeno, e d’altronde l’essenza di ogni buon rituale si basava su un atto reiterato. Quella pressione accelerata sui simboli impressi sui tasti era il vero mistero della scrittura, ben più dei cosiddetti processi creativi, e rappresentava da un punto di vista materiale, e perfino fisiologico, l’inspiegabile motivo per cui scriveva chi scriveva.

«Lei usa ancora la macchina da scrivere?» domandò il giovane alla fine di quella tirata.

E che cosa dovrei usare?

«Non so», disse il giovane perplesso, quasi scusandosi però per quella curiosità. «Oggi tutti usano il computer».

Il computer?

Soprattutto i portatili.

L’uomo fece di sì con il capo ma si vedeva che non aveva capito né gli importava troppo capire. «Ma insomma lei che genere di libri scrive o vorrebbe scrivere?»

Non saprei definirli, ogni tanto ne pubblico degli stralci sul mio blog. Lei ha un profilo Facebook? Oppure Twitter? O magari Instagram?

L’uomo sorrise. «Lei scriverà per forza di fantascienza, con tutti questi neologismi. La capisco, sa? Anch’io per evadere dal 1958 uso la fantasia. Ma non è una fuga, intendiamoci. Per capire bene una cosa bisogna guardarla da lontano».

«Che c’entra il 1958?» ribatté il giovane.

La ragazza col vestito rosso

Ma ormai l’uomo si era fatto ancora più teso e aveva dovuto alzarsi per andare a salutare qualcuno. Il giovane allora ne approfittò per sgranchirsi un po’ le gambe, avvicinarsi al palco dove tra poco sarebbe salito il vincitore, guardare da vicino la leggendaria lavagna con i nomi dei finalisti scritti con il gessetto. Mentre veniva spintonato di qua e di là, notò la ragazza con l’abito rosso Valentino farsi un selfie in mezzo alla gente.

Non sapendo bene neanche lui con quale faccia tosta si avvicinò. «Lei balla in televisione, vero?»

La ragazza lo guardò con gratitudine. «Sì, sono proprio io».

«Per me lei è la più brava del programma», disse il giovane, mentendo.

«Lei è un coreografo?» chiese la ragazza, con una palese gioia negli occhi.

Oh, no.

Un regista? Un autore? Un produttore?

Il ragazzo dovette dare sempre una risposta negativa, e a poco a poco gli occhi della ragazza tornarono quelli un poco spenti e scocciati di prima. E in quel momento sbucò dalla ressa il mentore che la prese per un braccio e spingendola via sibilò: «Tra poco inizia lo spoglio dei voti, tutti i fotografi si mettono dall’altra parte, muoviti».

Il giovane improvvisamente si ricordò dell’uomo al tavolo 60. Quell’uomo era identico a Dino Buzzati, e Dino Buzzati aveva vinto il Premio Strega con i Sessanta racconti proprio nel 1958. Si voltò per cercare con lo sguardo la strada migliore per tornare al tavolo, ma una ressa di persone gli impallò la visuale. C’erano scialli come muleta da torero, e stole come tappeti, e velette come ragnatele, e piume come ruote di pavone, e chignon come cupole di basilica, e ventagli come palmizi tropicali, e cappelli come dischi volanti, e cotonature come zucchero filato. In mezzo a quella ressa antistante il palco – incastrato tra una contessa e una soubrette – il giovane si sentì come perso. O forse era colpa del caldo che appiccicava i vestiti alla pelle, o del famoso liquore dolciastro dal color giallo zafferano.

Alla fine il giovane incrociò lo sguardo di un cameriere.

«Io ero al tavolo 60, dov’è finito il tavolo 60?» chiese, in una supplica.

«Mi prende in giro?», rispose il cameriere, «il tavolo 60 è quello laggiù».

E gli indicò un modesto cerchio di legno senza tovaglia con una gamba spezzata, poggiato a una delle poche colonne del portico rimaste in penombra.

Questo racconto, in una versione molto più lunga, è incluso nella raccolta I difetti fondamentali (Rizzoli, 2017).

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