In un saggio pubblicato sulla rivista “La voce” e intitolato Ciò che resta da fare ai poeti l’allora men che trentenne Umberto Saba sosteneva che «ai poeti resta da fare la poesia onesta». Ce l’aveva con D’Annunzio contrapposto a Manzoni (il primo «si ubriaca per aumentarsi», il secondo è «il più astemio e sobrio dei poeti italiani»); ma la formula, negli anni Trenta e Quaranta, si adattò anche contro un ermetismo a volte fumoso ed esibito, tra oscurità ben calcolate e improbabili angelicamenti (“i se contenta de qualunque dona”, imprecava Noventa, “e po’ i la vòl beata su le carte”).

La formula funziona anche ora, e non solo per la poesia, davanti a scritture troppo abili e astute che pretendono dal lettore soprattutto riconoscimenti di bravura; è il frutto avvelenato delle scuole di creative writing, dove insegnano che raccontare una storia dal principio alla fine, in ordine cronologico, è troppo ingenuo e piatto, e allora via tutti coi flashback e i flashforward, a saltabeccare col tempo avanti e indietro; dove ti richiedono metafore sorprendenti, ritmo “vivace”, personaggi e location sopra le righe o almeno smart, con un po’ di trasgressioni glamour; la regola truffaldina è far sembrare la propria ispirazione più vasta e trascendente di quanto non sia, sempre ironica e critica del presente ma mai (dio non voglia!) reazionaria o poco inclusiva.

Agli angelicamenti maschilisti del passato si è ora sostituito, per esempio, un analogo manierismo: quello delle “cattive ragazze” (che vanno dappertutto) con le loro bizzarrie vendicative, la loro frivolezza politicamente corretta, il loro impavido masochismo. Acrobazie psicologiche tese più a rendere interessante l’autore che a illuminare conflitti reali e collettivi; come se tra essere originali e scoprire qualcosa della società il primo fosse il fine e il secondo il mezzo, invece che il contrario.

Verso la morte

A questo spropositato pippone introduttivo sono stato indotto da due libri “onesti” che ho letto di recente: Tuamore di Crocifisso Dentello e Mordi e fuggi di Alessandro Bertante. A parte il titolo (mot-valise tra “tumore” e “tuo amore”), inutilmente sofisticato anche se nato da un lessico famigliare esorcizzante, il resto del libro di Dentello è la semplice, toccante testimonianza di un figlio che accompagna alla morte la madre amatissima. La madre Carmela, o meglio Melina, è un personaggio che non si dimentica: chiacchierona, sbrigativa, teatrale, anche violenta, bugiarda e perfino ladra a fin di bene, comica inventrice di battutacce e scherzi feroci, allegra e popolare.

Morta di cancro a 62 anni, intelligenza sprecata in una banale vita di casalinga, bella da giovane “come Claudia Cardinale”; ricca di una vitalità a fondo perduto, patita di soap e di calcio, comunista convinta, le canzoni dei Pooh al suo funerale. Il figlio la racconta a partire dal basso (o dall’alto) di un’assoluta mancanza di pudore: «l’unica donna della mia vita». Era incinta di lui quando si è sposata, dunque lui si dichiara «vedovo» esattamente come suo padre («non sono forse salito sull’altare con te in un patto d’amore finché morte non ci ha separato ?»). Lei ha difeso come una tigre la sociopatia del figlio, lui l’ha ingannata per mostrarsi degno di lei; ogni aggressione tra loro era l’equivalente di un bacio («nessun altro essere umano potrà mai amarmi come mi hai amato tu»).

La vestaglia

L’onestà è nella scrittura oltre che nella sincerità indifesa: una lingua sempre credibile nei dialoghi (con tocchi discreti di dialetto siciliano) e corretta, quasi da compito in classe, nelle descrizioni e nei commenti («attingendo alla sua collezione»; «signore danarose che ostentano il loro benessere»). Il passato della madre giovane non si vergogna di sfiorare il neorealismo stereotipo perché si appoggia a dettagli di una povertà vissuta (le caccole dei topi nella farina), come il figlio narratore si offre alle interpretazioni malevole (quanti parleranno di “amore tossico”!) senza nemmeno le astuzie dell’autolesionismo piacione.

Il fratello non esiste, rimosso dal panorama psichico: la nevrosi invalidante del narratore è esposta con asciuttezza, come se si trattasse di un fenomeno atmosferico, senza ricamarci né farci balletti. La scena finale è al limite tra realistico e visionario: il figlio che indossa la vestaglia della madre e si rimira allo specchio era una tentazione per freudismi al quadrato e fantasie queer – invece sobrietà, realismo spicciolo e commosso («Croci, piantala con questa pagliacciata! Togliti subito la mia cazzo di vestaglia!»).

Mordi e fuggi

Il titolo del libro di Bertante, Mordi e fuggi, riprende uno slogan che le Brigate rosse scrissero in un cartello messo al collo di Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens che fu il loro primo sequestrato. La storia si concentra sul periodo cruciale di incubazione della lotta armata in Italia, a Milano tra il 1969 e il 1972.

Scrupolosamente, e quasi manualisticamente, il libro segue il percorso dal Collettivo politico metropolitano a Sinistra proletaria, e poi alla fondazione delle vere e proprie Br col convegno di Pecorile, un paesino tra le colline reggiane. Vi concorsero, come si sa, elementi della sinistra universitaria milanese, frange operaiste delle fabbriche, i giovani intellettuali che provenivano da Trento (come Renato Curcio e Mara Cagol) più i reggiani Alberto Franceschini e Prospero Gallinari (i detentori delle favolose armi dei partigiani!). Senza dimenticare l’appoggio iniziale dei Gap di Giangiacomo Feltrinelli, col mito dei Tupamaros (i guerriglieri uruguayani da cui fu derivato il simbolo della stella a cinque punte). Bertante appartiene a una generazione di mezzo (nel 1969 ci è nato) e compie un’operazione-ponte tra la memoria di chi c’era e la disinformazione dei millennials e seguenti.

L’ultima speranza

Io c’ero, e quel che mi piace del libro è la rievocazione esatta, non tinta da polemiche sciocche (“astemia”, appunto), di quanto le Brigate rosse al loro sorgere raccolsero consenso in parecchie aree geografiche e sociali: nelle fabbriche del nord, la Pirelli, la Magneti Marelli, tra la popolazione di Quarto Oggiaro durante l’occupazione delle case, in molte università.

Eravamo prima della definizione di “deliranti” con cui si bollarono i loro volantini e manifesti; il sequestro Macchiarini ebbe la solidarietà di Lotta continua; io stesso me le ricordo, a Pisa alla fine del 1971, le bandiere con la stella a cinque punte addirittura in fondo ai cortei del Pci («compagni che sbagliano»). Me li ricordo gli allarmi a piazza Garibaldi quando quasi ogni settimana si proclamava imminente il colpo di stato; e le discussioni se le armi della critica non dovessero accompagnarsi all’uso delle armi vere; ricordo l’insofferenza per le “ritualità assembleari” in cui si stava incartando il Movimento studentesco. Ci fu un momento tra il 1970 e il 1972 in cui, prima di essere inchiodata a quell’enorme errore storico che certamente fu, l’ipotesi di una lotta armata rappresentò un’ultima disperata speranza.

Privato e pubblico

Il protagonista del libro di Bertante è probabilmente esemplato su una persona empirica, un militante della prima ora che si tirò indietro prima dell’irrevocabile, spaventato e ridestato alla realtà dei rapporti di forza dopo una retata seguita al delitto Calabresi («Non siamo stati noi», dichiararono subito le Br). «Non c’è così grande differenza tra noi e loro», scrive alla fine con disumana lucidità; si rende conto dell’ambizione smisurata di fare giustizia e che la lotta non potrà che essere persa; «io non parteciperò a questa guerra».

Una specie di finale antitragico, quasi un lieto fine rispetto a quelli che invece si sono rovinati la vita. Ma prima, il ritratto del protagonista è più che verosimile nella sua semplicità: un ragazzo borghese attratto dal lato avventuroso della lotta politica, dal fascino della “ligéra” milanese, dall’orgoglio di opporsi alla famiglia (salvo improvvise infantili nostalgie) e di partecipare a qualcosa di estremo ed eroico (la clandestinità!); un ragazzo che alterna l’eros politico a quello più banalmente sessuale, a letto con ragazze che cercano di fargli intendere ragione. Seni nudi e adrenalina, amore libero e i primi compagni che cedono alla droga.

Eppure arriva a ruoli importanti nel gruppo: fa parte della direzione strategica, partecipa alle rapine per autofinanziarsi, è presente quando si discute del nome e del simbolo, la pistola come rito di iniziazione. Una mescolanza di ardore privato e pubblica delinquenza che fu davvero lo stigma di quella stagione.

L’onestà

È merito di Bertante averlo intuito e raccontato senza acrobazie, nel mero ordine con cui le cose precipitarono, con una scrittura che è la stessa per i sentimenti e le riflessioni politiche («non so se quell’incessante nomadismo fosse parte integrante della nostra passione»); una Milano periferica un po’ di maniera (le partite a tressette, i treni, le mezze porzioni di pasta e fagioli), un’ammirazione per i vecchi anarchici (uno di loro dice al protagonista «sottoposto a un interrogatorio duro dureresti cinque minuti»). Non fa caso a qualche sciatteria (duro-dureresti) perché non è quello che conta; conta la fermezza nel valutare l’enorme distanza che separa la rivolta dalla rivoluzione.

«Perché la gente dovrebbe fare la rivoluzione?» è la domanda che resta aperta. Forse quel che collega questi due libri onesti e diversissimi, ora che i rapporti sentimentali sono trattati politicamente e quelli politici con intollerabile (e negato) individualismo, è proprio il riconoscimento che ci sono cose più grandi della letteratura.

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