Nei primi decenni del Novecento una serie di furiosi incendi devastarono l’Ontario settentrionale, la zona fittamente boscosa del Canada che poco più a sud lambisce i Grandi Laghi e confina con gli Stati Uniti. Sono incendi che vengono ricordati come battaglie di una lunga guerra: quello di Timmins, nel 1911; quello di Matheson, nel 1916, e poi «Il grande incendio» di Haileybury, il 4 ottobre 1922. Regione di frontiera e di avventurieri, di coloni che spingevano il passo alla ricerca di miniere, di legname, di pelli d’animali, il fuoco spazzava via intere cittadine, come Haileybury, che benché sorgesse in un luogo remotissimo vantava il suo tram, la cattedrale, l’ospedale e le case lussuose di chi aveva fatto i soldi con le cave d’argento. Tutto bruciato.

Sei anni prima – era una giornata torrida di luglio – un ragazzino di 14 anni che lavorava come muratore nella cittadina di Matheson e il cui nome forse era Ed Boychuck, era stato sorpreso dalle fiamme e dal vento mentre percorreva a piedi la strada che dalla fattoria di famiglia lo portava sul cantiere. In pochi minuti, i focolai sparsi erano divampati e fatto muro. Morirono in tantissimi, compresa tutta la sua famiglia, riparata come in una trappola nello scantinato della fattoria: cinque fratelli e i genitori. Lui sopravvisse, vagando per i campi e gli acquitrini. Ed, o Ted, o chissà quale altro nome, si trasforma in leggenda. Forse è diventato cieco, forse si è messo a cercare un lingotto d’oro che aveva sotterrato da qualche parte, per questo deambulava senza pace. Forse è impazzito.

Passano i decenni. All’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, una fotografa di cui sappiamo poco, «tipa tosta, e anche piuttosto ben messa», si avventura nella foresta alla ricerca degli ultimi testimoni di quei roghi. Per caso, in città, ha conosciuto una vecchissima signora che le ha fatto un racconto. Lei aveva in archivio degli scatti, volti, sguardi, rughe. Ha un’idea. Con la sua jeep, la sua attrezzatura, la fotografa – non sapremo mai il suo nome – passa la frontiera d’alberi e trova una piccola comunità di vegliardi che si sono ritirati dal mondo: Tom e Charlie, i loro cani, ma anche un certo Steve che gestisce un hotel abbandonato dal suo proprietario libanese, e un tal Bruno che invece, sul costone di una collina, si è messo a coltivare marijuana. E Ed? O Ted? È davvero un fantasma: «L’abbiamo appena seppellito» le dicono. Di fronte a quella notizia, la fotografa avrebbe potuto fare marcia indietro e tornarsene da dove è venuta. Ma un nubifragio la blocca, deve dormire nella capanna di Charlie, in un gomitolo di pellicce di «orso nero, volpe argentata, lupo grigio e persino ghiottone», scuoiate a mano da quel vecchio che la osserva diffidente.

Andarsene

Così comincia Piovevano uccelli della canadese francofona Jocelyne Saucier, nata 73 anni fa in una delle province marittime sull’Atlantico, scrittrice e giornalista poco conosciuta da noi ma tra le maggiori del suo paese.

Uscito in Canada nel 2011, il romanzo torna adesso in Italia con una nuova traduzione di Luciana Cisbani per Iperborea e a dieci anni di distanza dal suo apparire sembra più attuale che mai nel raccontare l’attrazione, sempre più diffusa, verso un liberatorio ritorno alla natura rispetto alle regole della civiltà. Quotidianamente si leggono notizie di persone che hanno scelto di mollare il proprio lavoro di manager per darsi alla viticoltura, al miele, o addirittura di investire tutto in una barca e alla fine approdare su un’isola. È la grande utopia del presente, andarsene. Il grande biologo francese Henri Laborit, già negli anni Settanta nel suo Elogio della fuga scriveva: «La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare la barca e l’equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere». Che metafora!

Fragilità della morte

Ma non è solo questo: il romanzo della Saucier affronta un aspetto non poco spinoso che sarebbe piaciuto a Laborit, vale a dire scegliere come terminare la propria vita. Se lo volessimo leggere da un punto di vista psicanalitico, come se fosse una delle storie a cui ci ha abituato Irvin Yalom nei suoi libri, potremmo considerare il racconto della canadese una terapia di avvicinamento all’idea della morte. Nello scuro del bosco, laddove tutto si ridimensiona, la morte, per Charlie e Tom, e così per Ed, è divenuta familiare: bisogna farci i conti e prepararsi: «C’era un patto di morte tra i miei vecchietti. Non uso la parola suicidio, a loro non piaceva. Troppo pesante, troppo patetica per una cosa che, in definitiva, non li impressionava molto. Per loro l’importante era essere liberi, nella vita come nella morte, e avevano stretto un accordo».

Tuttavia, la parola chiave qui non è «morte», bensì «libertà». Cosa significa? Il romanzo ci dice qualcosa di meno sognante rispetto all’ambientazione fiabesca che balza all’occhio a prima vista. C’è la morte, è vero: ma c’è anche il prima. E la morte non è solo un traguardo, ancorché tenebroso. Viene in mente, leggendo il libro, ed è per questo che è molto attuale, ciò che è magistralmente raccontato in Nomadland di Chloé Zhao (Premio Oscar 2021) e interpretato da Frances McDormand nel ruolo di Fern.

Ecco, Fern: il lutto l’ha messa su un piccolo camper e la spinge a girare per gli Stati Uniti, su strade dove incontra altri come lei. Usciti di scena. Sono una nuova comunità. Nomade, separata. Hanno girato le spalle alla città. Quale che sia il motivo. E spesso il motivo è la morte, la difficoltà di sopportarla. Fern come Charlie, Tom, Steve, Bruno, i loro cani. E poi c’è Gertrude, alias Marie-Desneige. Perché nella comunità protetta, da che mondo è mondo, un certo momento entra un corpo estraneo. Loro si erano illusi fosse la fotografa. No, non è lei. È un personaggio che sembra portare con sé un fardello ancora più doloroso del loro e scombina le carte.

La morte che sembrava così forte, si scopre improvvisamente fragile. Il patto è minacciato. Allora la zampata della scrittrice è in agguato, poiché si legge questo romanzo, a metà strada tra Jack London e Il Grande Freddo, come la confortante illusione di potersi un giorno riconciliare con la nostra fine. E invece basta un po’ di vita, quale che sia la forma sotto cui si presenta, per rispedirci lontani dalla foresta, sulla rotta dei carghi e delle petroliere.


Jocelyne Saucier è autrice del libro Piovevano uccelli, edito da Iperborea

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