Nella sua virile armatura e sfavorita dalle tenebre, la guerriera musulmana Clorinda muore inaspettatamente per mano dell’uomo che la ama, in un duello in cui, rifiutandosi di pronunciare il suo nome, viola i codici cavallereschi e perde gli ancoraggi alla vita. Il celebre canto XII della Gerusalemme liberata ha ispirato poi l’ottavo libro dei Madrigali guerrieri et amorosi di Monteverdi, dedicato proprio al Combattimento di Tancredi e Clorinda.

Il madrigale rappresentativo, potenziato dal pathos del pizzicato degli archi, narra infatti la storia del valoroso cavaliere cristiano che, stimando Clorinda un uomo nella notte, prima la uccide, poi la riconosce togliendole l’ingannevole elmo, e infine, riempiendo il copricapo con l’acqua di un ruscello vicino, le dona la salvezza eterna con il battesimo cristiano.

Non stupisce dunque che la drammatica scena del crossdressing della Clorinda tassiana abbia indotto André Campra a immaginare come contralto per il suo Tancréde – nel 1702, ben un secolo prima dell’omonimo rossiniano – Julie D’Aubigny, «l’angelo della morte, forte come un uomo, bello come una donna», spadaccina crossdresser e diva della musica lirica all’Opéra di Parigi.

La Maupin

D’Aubigny, anche conosciuta come “La Maupin”, con un’estensione vocale versatilissima che neanche il varietà di Giorgia O’Brien al Teatro Ambra Jovinelli di Roma, era stata istruita dal padre come un maschio nelle arti della spada, e cresciuta come una dama dal Conte d’Armagnac, che ne fa il suo giullare e la sua amante. Ma su tutto, chiaramente, fu icona di un’ambigua performatività di genere, piuttosto camp e molto queer. Ancora di più se penso ai sogni bagnati da adolescente per la sensuale androginia di Catherine Spaak col giustacuore, nelle vesti di Maddalena/Teodoro, nel film che Mauro Bolognini ha tratto dal romanzo epistolare di Gautier, ispirato proprio a Madamigella di Maupin.

Né uomo, né donna o forse entrambi, Julie d’Aubigny visse nel periodo più camp della corona francese – a dispetto di Sofia Coppola – con quella che rimane la vera guest star di Versailles: Filippo, Duca d’Orléans, detto Monsieur. Educato dalla madre per tutta la vita a essere molle per non avanzare pretese sul trono del fratello maggiore, il re Luigi XIV, il principe si dice fosse tutto trine e calzettine di seta fin dall’infanzia, e che da adulto si aggirasse meravigliosamente per la corte in gonnella e tacchi rossi.

Monsieur passò alla storia per quel suo costume da pastorella, i buchi alle orecchie e le continue infatuazioni per i suoi favoriti giovani e belli, tra i quali l’amante di una vita Filippo di Lorena, e perché era solito organizzare feste kitsch per parrucconi in crinolina, che son da immaginarsi come quelle “travestite da salotto” del film di Vittorio Caprioli del Settanta, Splendori e miserie di Madame Royale. Allora, il marito dell’indimenticabile Franca Valeri aveva in mente proprio il circolo di Monsieur, per riprodurre stilisticamente la confusione babelica supercamp dei salotti romani, frequentati, tra gli altri, da Alberto Arbasino e da Paolo Poli negli anni Cinquanta.

Il romanzo di Ida Amlesù

È, invece, Julie, il romanzo di cappa e spada – o più propriamente quello che il mondo anglosassone definirebbe con la mirabolante espressione di swashbuckling novel – di Ida Amlesù, edito da Sonzogno, a riportare oggi a galla, insieme alla storia sommersa della Maupin, anche l’immaginario travestitismo fancy-militare di quelle mie mattine primaverili davanti alla tivù, prima di andare alla scuola delle suore. Mattinate spese a girare in tondo per far ruotare come una gonna quella maschilissima divisa, il grembiule azzurro col fiocco bianco sopra e le braghe più corte sotto, da cui spuntavano le gambette nude.

In sottofondo alla mia performance, i Cavalieri del re su Italia 1 (prima della nuova, pavida, sigla di Cristina d’Avena!) cantavano che il padre di Lady Oscar, in barba ai traumi psicoanalitici e alla disforia di genere, «voleva un maschietto ma ahimè sei nata tu». E difatti le tangenze tra la storica ricostruzione biografica di Julie d’Aubigny e l’anime tratto da Le rose di Versailles, il capolavoro del mangaka Riyoko Ikeda, sono pressocché lampanti.

Oscar François de Jarjayes, passando di divisa in divisa fino al compimento cromatico della bandiera francese, ha sì contribuito a costruire l’immaginario estetico capovolto della dominance/submission di un’intera generazione nella subcultura queer BDSM; ma sarà solo in un momento di debolezza, e solo per rassicurare quel maschio bianco basic del conte di Fersen in preda al gay panic, che Oscar si (tra)vestirà da donna. Anzi, proprio la friendzone di Fersen rafforzerà il suo intento di vivere come un uomo, malgrado il tentativo sessualmente violento e non consensuale dell’eterosessismo, nella persona di André, di ricordarle che una rosa non può essere un lillà.

Sembrerebbe invece che Julie D’Aubigny fosse una crossdresser più professionale, performando alternativamente il maschile e il femminile senza mai aderirvi troppo. E così, tra le poche carriere concesse alle donne francesi di fine Seicento, e che Ida Amlesù elenca nel suo romanzo – ossia l’aristocratica, la moglie, l’artista, la puttana, la badessa – Julie D’Aubigny decide di essere la diva omicida, per giunta bisessuale e travestita, che dà fuoco a un convento, disseppellisce il corpo di una consorella per travestirsi da monaca e far evadere la donna che ama (pagherei per vedere ora la faccia delle mie suore partenopee!).

Orizzonti queer

Una queerness che sfrutta la non aderenza di genere con l’inganno, al fine di uccidere, distruggere e raggiungere il successo professionale; una queerness di emancipazione femminista e antisociale, senza neanche la necessità di tirare in ballo le teorie di Leo Bersani o Lee Edelman.

Pensandoci bene, la Maupin sarebbe stata per Judith Butler anche più emblematica della drag queen Divine, che ha dato alla filosofa l’occasione critico-teorica di scavalcare il confine tra naturale e artificiale, interno ed esterno, rispetto alla performance dei generi, confine destabilizzante che diventerà appunto queer pochi anni dopo.

È dunque dal dibattito intorno a queste encomiabili scelte politico-editoriali che si può ripensare la storiografia e mettere in discussione la nozione stessa di canone – parola che ha destato il panico qui, in una classe di ricezione del classico alla New York University – e soprattutto se ancora ha senso interrogarsene.

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