L’animale della foresta, ultima pubblicazione della «piccola biblioteca» adelphiana, fa parte di un gruppo di scritti completati e revisionati da Roberto Calasso poco prima della sua scomparsa, come Ciò che si trova solo in Baudelaire (2021) e Sotto gli occhi dell’Agnello (2022), e dialoga in modo particolare con il primo dei due.

Se quello si concentrava sulle caratteristiche che distinguevano nettamente Baudelaire dalla temperie culturale che aveva attraversato, cui era dedicato La Folie Baudelaire (2008), L’animale della foresta indaga l’irriducibile singolarità dell’opera di Kafka già al centro di K. (2002).

Il Kafka più oscuro

Il volumetto colpisce di primo acchito per il verde intenso della sua copertina: più che alludere al mistero della selva, questo colore dovrebbe risvegliare nel lettore l’immagine di un «muschio oscuro» che, come scoprirà attraverso le acute riflessioni di Calasso, è l’ambiente elettivo della letteratura, o perlomeno di ciò che questa parola ha significato per Franz Kafka.

Calasso si sofferma in modo particolare su tre racconti – Ricerche di un cane, Josefine la cantante o il popolo dei topi, e La tana – scritti da Kafka alla fine della sua vita e accomunati dall’avere per protagonisti degli animali.

Sono racconti di oscurità estrema, resi ancora più misteriosi proprio dalla scelta del punto di vista da cui sono narrati: già Walter Benjamin aveva lodato la capacità di Kafka di dare voce ad animali non umani in modo da suscitare fino all’ultimo qualche perplessità sul tipo di creature che parlano nella storia.

Calasso viviseziona questi testi per individuare alcuni tratti tipici dell’esperienza letteraria di Kafka: l’isolamento; la presa diretta sull’enigmaticità dell’esistenza; la capacità di descrivere lo spazio mentale con precisione. Con queste tre storie, scrive Calasso, Kafka in un certo senso si cala «in uno strato più largo di ciò che è, là dove gli uomini possono anche essere una presenza superflua». È in quello spazio, come vedremo, che va ricercato l’ideale letterario di Roberto Calasso.

Titolino

Il cane delle Ricerche appare subito come un alter ego finzionale di Kafka: secondo Calasso non vi è niente di più autobiografico, nella sua opera, di quelle riflessioni di «un cane fra i cani».

Si tratta di un essere che si distacca completamente dalla propria specie per osservarla, avendovi scorto qualcosa che al contempo lo getta nella disperazione e gli impone di studiarla più da vicino.

Quello dedicato a Josefine è un racconto più disperato ancora, perché mette al centro il complesso rapporto fra artista e popolo. Josefine è in grado di produrre una musica che non è facile percepire come canto, perché somiglia – e, sospetto terribile che pervade tutto il racconto, forse è davvero identica – al fischio, cioè al normale sistema di comunicazione dei topi. Per questo motivo, alcuni dubitano dell’eccezionalità delle sue doti artistiche.

A un certo punto Josefine, che non ottiene da parte del pubblico la devozione a cui aspira sopra ogni cosa, scompare, e il popolo dei topi prosegue la sua vita come nulla fosse.

Il senso del fischio

Così, Kafka «racconta l’insufficienza non del canto, non della musica, ma dell’arte, di qualsiasi arte. Anche dello scrivere. Racconta la loro inadeguatezza insanabile. Di conseguenza, la loro fondamentale inutilità».

Sarebbe facile liquidare la storia di Josefine come un’allegoria del rapporto fra l’artista e il proprio tempo, una celebrazione accorata dell’inutilità come valore, un canto da contrapporre alla «scaltrezza pratica» del popolo dei topi, che – Calasso scriveva in K. – «sarebbe rimasto per Kafka l’immagine ultima della comunità».

Nel canto di Josefine, che non si distingue dal fischio della vita quotidiana, Calasso intravede invece un segreto che prelude all’«ingresso di Kafka nella letteratura».

Il pericolo della tana

Un segreto che viene illuminato a tratti dalla rilettura di La tana, racconto con cui forse Kafka raggiunge il fondo dell’inquietudine. Vi si narrano le fatiche di un indefinito protagonista dedito all’allestimento di un luogo che lo metta al riparo dal mondo esterno, e vi si descrive il suo terrore di essere attaccato da un nemico perennemente in agguato.

Il fatto che Calasso sottolinei che gli sforzi di questo animale sono rivolti all’allestimento e non alla costruzione di tale spazio («si allestisce qualcosa che già esiste. È questa l’insinuazione con cui si avvia il racconto»), deve metterci in allerta.

Con tutti i suoi scritti, ma soprattutto con la sua poderosa Opera senza nome, Calasso ci ha insegnato a riconoscere nella mente la dimensione preesistente a qualunque altra.

Agli aspetti più insidiosi e affascinanti di quella vastità racchiusa nella nostra scatola cranica ha dedicato moltissime pagine dell’impresa letteraria avviata con La rovina di Kasch (1983) e conclusasi dieci volumi dopo con La Tavoletta dei Destini (2020).

La tana di Kafka assume allora le sembianze di una mente, e deve essere intesa – Calasso lo aveva già sottolineato in K. – non come un rifugio, ma come un luogo che è impossibile mettere al riparo da ingerenze esterne.

Sebbene il suo abitante possa utilizzarla come via di fuga, la tana rimane intrinsecamente pericolosa perché, proprio come la mente umana nella concezione di Calasso, è abitata da presenze misteriose. In effetti, i pericoli per l’abitante della tana sono soprattutto interni, poiché dentro quella labirintica costruzione aleggia «un’entità multipla, onniavvolgente, che vuole soltanto distruggere chiunque non le corrisponda».

Così, lo sforzo ingegneristico dell’animale trova una connessione con un tema importante nell’opera di Calasso, ovvero l’autoriflessività dell’indagine conoscitiva. Mentre scava nella propria mente, l’osservatore si sdoppia e in qualche modo avverte uno sguardo che lo scruta: appartiene all’estraneo, al nemico appostato; perciò «l’autoriflessione, senza di cui non si vive» assume in Kafka un aspetto «diabolico o demoniaco, o comunque inumano».

Letteratura assoluta

La singolarità dell’animale e, fuor di allegoria, di Franz Kafka, consiste proprio, in un mondo che vive in uno stato di perenne ottenebramento, nella capacità di accorgersi di questa presenza, di avere cioè il privilegio «di vedere i fantasmi della notte […] incontrandoli nella realtà».

L’abitante della tana vive sulla spinta di esigenze diverse e contraddittorie: al bisogno di separazione dal resto del mondo si accompagna la necessità di uscire e andare a caccia per procurarsi riserve di cibo da stipare nella sua piazzaforte sotterranea; alla speranza che ciò costituisca una strategia di sopravvivenza si unisce la consapevolezza di non poter evitare gli agguati.

Calasso ci invita a scorgere nell’oscillazione fra questi estremi il movimento incessante che alimenta l’attività compositiva di Kafka: l’apertura della tana, coperta da una coltre di muschio e dunque brulicante di vita, è il confine su cui si deve posizionare lo scrittore, «l’unico posto che partecipa dei due mondi e permette di misurare la loro distanza»; nella tana del proprio universo mentale Kafka ricerca l’allontanamento dal mondo esterno – la vita associata, le istituzioni del mondo borghese, la famiglia, ma anche la letteratura del proprio tempo – che pure è il terreno di caccia di cui la sua arte si nutre.

Come afferma nei Diari, «soltanto così si può scrivere, soltanto con questa continuità, con questa completa apertura dell’anima e del corpo».

In quel muschio, dunque, Franz Kafka scopre la letteratura, diventa lo scrittore capace di far parlare gli archetipi: al sentimento acutissimo della propria attività psichica e alla capacità di descriverla nelle sue specificità, l’estraneo toglie ogni declinazione personale, al punto tale che il racconto può spogliarsi di ogni spiegazione logica, nonché di ogni connotazione umana.

Così, pur nutrendoci dei suoi diari, della sua corrispondenza privata e financo dei suoi disegni (di recente pubblicazione sempre presso Adelphi), quando leggiamo Kafka prescindiamo totalmente dalla sua esperienza biografica e ci avventuriamo in un territorio senza nome, dove a contare sono soprattutto alcune passioni irriducibili e prive di confini.

A contatto col muschio, Kafka è riuscito a scarnificare la vita fino al punto da farla coincidere con l’arte; come il canto-fischio di Josefine, la letteratura di Kafka annulla i contorni delle nostre esperienze comunicative: azzerati gli orpelli, parla a quella e con quella parte della vita che non ha specificazioni ed è eterna: «non era più qualcosa dai confini tracciabili. Era ciò che Kafka continuò a scrivere fino all’ultimo». Altrove Calasso l’avrebbe definita «letteratura assoluta».

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