Il brano è tratto dal libro Il mare degli Dei. Guida mitologica alle isole della Grecia, di Giulio Guidorizzi e Silvia Romani, edito da Raffaello Cortina editore e in uscita oggi.

Probabilmente la più bella delle Cicladi, con le sue pietre screziate dal vento, le spiagge scoscese, e il Meltemi che quando si leva forte la spazza e fa volteggiare ogni cosa: Milos esibisce quasi a ogni angolo il suo paesaggio arcano, abbagliante. Scogli candidi di pomice a Sarakiniko, un prodigio della natura, acqua limpidissima a Paliochori in cui sgorgano bolle calde dal fondo, segno di un’attività vulcanica ancora non sopita. Quest’isola meravigliosa fu scolpita dal vento e dalle onde dell’Egeo in attesa che l’uomo arrivasse; e arrivò stabilmente almeno 7mila anni fa, o forse prima. Ma piedi umani l’avevano calcata in epoche ancora più antiche.

Da Milos si ricavava l’ossidiana, un materiale vulcanico usato per fabbricare armi da taglio prima dell’invenzione della metallurgia. Già 13mila anni fa vi erano uomini che attraversavano il mare, dalle coste della Grecia, per procurarsi l’ossidiana di Milo: ne sono stati trovati frammenti in grotte del Peloponneso. I raccoglitori di ossidiana varcavano più di cento chilometri di mare su canoe o zattere primitive per procurarsela; quando abbiano cominciato a formarsi insediamenti umani su quest’isola non lo sappiamo.

Sappiamo però che durante l’età del bronzo esisteva nel sito di Philakopi, a nord dell’isola, una città che era tra le più importanti del mare Egeo; fu abitata dal 2500 al 1150 a.C., prima dai Minoici, poi dai  Micenei: fu danneggiata da terremoti e invasioni, e infine decadde. Ne resta una sezione della muraglia in massi, e rovine di edifici dove sono state trovate ceramiche e statuine cicladiche, oltre che i frammenti di un affresco con una raffigurazione di pesci volanti, che sembrano guizzare fuori dal muro.

Sulle rovine di Philakopi crescono fiori e vegetazione spontanea; il mare ha eroso una parte del sito dell’antica città e chi lo visita arriva ai bordi di una scogliera a picco, e si trova di fronte all’evidenza della forza della natura che ha inghiottito il lavorio di decine di secoli di civiltà umana.  

La statua

Armi in ossidiana e ceramiche neolitiche sono esposte nel piccolissimo museo di Plaka, dominato da una malinconica e opaca copia della Venere all’ingresso, che si apre su una piazza bordata da alberi sui quali cantano cicale instancabili. Milos infatti conteneva un’altra bellezza: la statua di Afrodite che rappresenta la scultura greca nell’immaginario universale, la cosiddetta “Venere di Milo” che doveva trovarsi molto bene in un ambiente così, dove ogni luogo distilla luminosità e bellezza. Fu scoperta in una nicchia dell’antico ginnasio, che si trovava sull’Acropoli, sotto un manto di pietre. Quelle pietre la salvarono. Chi le avesse accumulate non sappiamo.

Un terremoto?  Una serie di frane e smottamenti? Oppure – possiamo persino immaginarlo – un innamorato della bellezza che volle salvare questo tesoro inestimabile di arte, in un’epoca in cui le statue venivano fatte a pezzi? Di fatto, oggi resta solo un cartello, ai bordi della stradina che porta all’antico teatro, e dice piuttosto mestamente: «Qui fu trovata la Venere di Milo». La statua giacque sotto quel cumulo di terra e sassi per secoli. Poi, un giorno, un contadino chiamato Yorgos Kentrotas, che stava rimuovendo pietre dal suo campo, la scoprì.

Capiva di avere trovato un tesoro, e cercò di sfruttarlo; era il 1820, l’isola si trovava ancora sotto il dominio turco; di lì a pochi mesi però sarebbe scoppiata la rivolta dei greci, che avrebbe portato alla nascita di uno stato nazionale. Sino al 1566 Milos e le altre Cicladi erano state sotto il potere dei Duchi di Nasso (un’emanazione della Repubblica di Venezia); poi i Turchi annessero le Cicladi senza colpo ferire: un piccolo bocconcino per il loro sconfinato appetito.  

La notizia del ritrovamento si sparse velocemente. In quei giorni era ancorata nel porto di Milos una nave francese, sulla quale si trovava il futuro ammiraglio D’Urville. Gli fu riferito della scoperta ed egli si recò a vedere la statua, che era in due blocchi, il busto nella capanna del contadino, mentre il panneggio che copriva le gambe era rimasto nella nicchia. 

Così D’Urville ricorda il suo incontro con la Venere: «La statua rappresentava una donna nuda, la cui mano sinistra, protesa, tendeva una mela mentre la destra reggeva una veste finemente drappeggiata che scendeva con negligenza sino ai piedi; tutt’e due le braccia sono state mutilate e si trovano staccate dal corpo». 

Come tutti sanno, la Venere esposta al Louvre è mutila di entrambe le braccia. D’Urville si sbagliava, oppure le braccia andarono perdute in seguito? Questo è uno dei misteri della statua. Che la Venere reggesse una mela è plausibile; la mela infatti era uno dei suoi simboli: questo frutto, simbolo d’amore, le fu donata da Paride al momento del suo giudizio, e la mela si riferisce anche al nome dell’isola Milos o Melos, come la chiamavano gli antichi, tanto che una mela era incisa sulle antiche monete dell’isola.  

Questa Venere, di una bellezza maestosa, col busto negligentemente ruotato in una posa naturale e il peso posato su una gamba mentre l’altra è piegata, secondo i canoni dell’equilibrio classico, risale al II-I secolo a.C.; sul basamento si leggeva anche  il nome dello scultore, Alessandro d’Antiochia, che fu attivo appunto negli anni a cavallo del 100 a.C.

La contesa francese

Il mistero delle braccia mancanti della Venere di Milo – o staccate e nascoste da qualche parte – è uno dei dilemmi della storia dell’arte: c’erano davvero? Quando andarono perdute? A ogni modo, attorno alla statua scoperta così fortunosamente  trovata avvennero altre turbolenze.

D’Urville acquistò la statua. Il contadino Yorgos cercò di far rendere il suo affare e, a quanto pare, la vendette una seconda volta a un gruppo di preti armeni, che a loro volta intendevano cederla a un pascià della corte di Costantinopoli. Così l’ufficiale in seconda D’Urville racconta che cosa avvenne quel giorno sul molo dell’attuale Adamas, oggi il porto di Milos. «La statua, accuratamente imballata, era già stata portata giù  dalla montagna di Castro; l’avevano posata sulla riva in attesa d’imbarcarla su una nave diretta a Costantinopoli, per consegnarla al pascià che l’aveva fatta acquistare. Non posso evitare di dire che se, per un miracolo, questa splendida Venere avesse potuto trasformarsi in una Venere viva, avrebbe sospirato e versato calde lacrime, vedendosi trascinata sulla battigia, spinta a forza di braccia, fatta rotolare da quegli uomini fanatici. Ha persino corso il rischio di finire in mare!». 

A questo punto il conte Tyrac, segretario dell’ambasciata presso Costantinopoli, che si trovava sulla nave francese, fece scendere a terra una scialuppa piena di uomini risoluti, armati di sciabole e fucili. Si precipitarono sul molo, memori delle recenti glorie napoleoniche; scoppiò un gran trambusto. I greci assistevano i preti armeni e cercavano di difendere la Venere. Ma il comandante gridò «A moi, mes braves! Prendiamo la statua e portiamola sulla nave». Così avvenne: furono tagliate orecchie, inferte ferite e bastonate, e alla fine il commando francese s’impadronì della statua e la portò sulla nave.

La Venere fu donata al re Luigi XVIII che la fece portare con tutti gli onori al Louvre, dove è uno dei pezzi più famosi. Dall’altra parte della scala sociale, il povero Yorgos fu fatto frustare dai turchi per avere combinato il pasticcio. La Venere è ancora oggetto dell’ammirazione di chiunque entri al Louvre.

Heinrich Heine, nel 1848, la vide e quasi svenne per l’emozione: «Sono rimasto a lungo prostrato ai suoi piedi e ho pianto con tale violenza che persino un sasso avrebbe provato pietà». Sembra che la statua abbia suscitato – com’è giusto che faccia una Venere – ondate di passione anche in anime più semplici: le cronache dell’epoca riportano che nel 1877 un giardiniere di Parigi fu arrestato per avere tentato di congiungersi fisicamente con una copia della statua che si trovava in un parco. Anche nella pietra la dea dell’amore continuava a diffondere la sua magica forza.


Giulio Guidorizzi e Silvia Romani sono autori del libro Il mare degli Dei. Guida mitologica alle isole della Grecia, edito da Raffaello Cortina editore e in uscita oggi

© Riproduzione riservata