“Il senso della vita”: ecco un’espressione che si ha un certo ritegno a usare, dopo che i Monty Python hanno intitolato così un film abbastanza famoso al tempo in cui è uscito, una quarantina di anni fa, e di cui ancora girano in rete alcune clip diventate di culto, come quella del cameriere filosofo, quella del signore grassissimo che si suicida mangiando, o quella della morte che bussa alla cena dei buoni borghesi, manco fossimo in un film di Bergman. Per i più giovani o i meno colti poi c’è sempre la trasmissione di Bonolis che chiamava a parlare del senso della (loro) vita i beniamini del pubblico televisivo.

Domande fondamentali

Anche le altre domande fondamentali non se la passano molto meglio. Il classico Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? che ancora nell’Ottocento poteva servire da titolo a un quadro dipinto da Gauguin dopo che gli era morta la figlia Aline, appare fortemente ipotecato dall’aggiunta che vi ha fatto Altan: Che numero di codice fiscale abbiamo?

Del resto ricordo un professore passabilmente trombone che ogni tanto interrompeva la sua lezione universitaria e, fissando con sguardo che si voleva ispirato la finestra (la porta sarebbe stata troppo prosaica), declamava «E allora chiediamoci, ma davvero, chi siamo, ecc», senza peraltro suscitare soverchie accensioni metafisiche nel suo uditorio.

I grandi filosofi, d’altra parte, si fanno domande più presentabili. Kant si chiedeva «Che cosa posso sapere?» «Che cosa devo fare» «Che cos’è l’uomo?», e Leibniz formulava l’unico interrogativo che non rischia di essere banalizzato, dato che a nessuno (a nessuno che non sia filosofo, beninteso) viene in mente di porselo, e cioè «Perché esiste qualcosa anziché il nulla?». L’esistenza delle cose normalmente non suscita infatti meraviglia, anche se nessuna cosa può dare ragione della sua esistenza e nessuna ragione basta a far esistere qualcosa.

Laico e trascendente

Invece proprio il Senso della vita campeggia sulla copertina dell’ultimo libro di Vito Mancuso, che maneggia la domanda senza imbarazzo e senza timori. Infatti Mancuso è un teologo, e da un teologo ci aspettiamo proprio questo genere di domande, e magari anche le relative risposte.

Che la domanda sul senso della vita abbia una curvatura religiosa lo ammette Mancuso medesimo, quando ricorda che nelle discussioni che si accendevano ai tempi della scuola i credenti sostenevano che c’è un senso della vita mentre i non credenti lo negavano. E se non ci bastano i ricordi di scuola (ammetterete che la domanda sul senso, presa così di petto, ha qualcosa di adolescenziale), c’è addirittura Einstein a ricordarcelo: «Qual è il senso della vita? Rispondere a questa domanda implica comunque una religione».

Ora, l’opinione di Einstein è condivisibile solo se si parla del senso della vita, di un unico senso che dovrebbe valere per tutti o che dovrebbe valere per la vita in generale. Se si esce da questa premessa, non è affatto vero che per trovare un senso nella (propria) vita sia indispensabile una religione. Tutti noi conosciamo persone (del cui gruppo sperabilmente facciamo parte) che un senso lo hanno trovato, cercando non quell’unico senso ma i mille modi diversi nei quali un senso si può trovare: c’è chi un senso lo trova nel lavoro (se ce l’ha), nella famiglia, nei figli, nell’amore, nello studio, nel volontariato, e persino (vi assicuro che ci sono stati tempi in cui sarebbe apparso al primo posto) nell’impegno politico.

Mancuso, allora, usa una piccola astuzia. Mette il senso al singolare nel titolo, come se di senso ce ne fosse solo uno, e qua e là continua a esprimersi come se ci fosse un senso generale della vita, un unico senso; ma poi per tutto il resto del libro se ne dimentica, e parla dei molti sensi che si possono dare alle proprie vite, come se non ci fosse nient’altro oltre l’orizzonte della vita stessa. Posizione che personalmente condividiamo, ma che rischia di crearci qualche confusione e anche qualche imbarazzo, perché comporta la conseguenza, alla quale un tantino teniamo, di non farci più capire che cosa distingua una posizione laica e immanentistica da una posizione teistica e trascendente.

Per esempio il ritornello di Mancuso è che non c’è senso senza consenso. Per noi è ovvio: come posso trovare un senso nella mia vita se non aderisco pienamente a quello scopo che dovrei prefiggermi? Se, per prendere uno degli esempi fatti sopra, credo che lo scopo sia l’impegno politico mentre sono interessato solo ad avere una vita privata il più piena possibile? Ma questo accade se sono libero di scegliere ciò che credo possa dare un senso alla mia vita. Se il senso invece è legato all’esistenza di Dio (e non può non esserlo, diceva Wittgenstein), posso essere altrettanto libero o la mia libertà è già finita? Come faccio a mettere sullo stesso piano le diverse possibilità della mia vita (la suprema libertà del non credente) se debbo rapportarle a una volontà superiore, anzi onnipotente?

A costo di mettermi nella posizione poco simpatica del non credente che dice all’uomo di fede come dovrebbe credere, oso dire che la religiosità estenuata, pettinata, rispettosa e corretta di Mancuso un poco mi irrita. Mi pare farsela un po’ troppo facile: non dovete fare nulla che non fareste etsi deus non daretur e se tutto finisse con la morte. Le vostre aspirazioni e i vostri ideali possono essere quelli di chiunque. Ma allora a che pro fare la fatica di credere?

Stili di vita

Una religiosità profonda e intransigente ci porta a rispettarla, come rispettiamo in Kierkegaard la «passione infinita della persona interessata alla propria salvezza eterna» o in Manzoni l’idea che la vita sia «un impegno, del quale si renderà conto». Ma se il discorso sul senso della vita si trasforma in un discorso sugli “stili di vita”, se la morte di Dio è (testuale) «una crisi energetica», se i consigli su come vivere sono quelli che troveremmo in una rubrica di supporto psicologico, allora i (rarissimi) accenni a una prospettiva trascendente si accettano ancora più malvolentieri. Perché non è che il teologo ci rinunci del tutto. Per esempio parla della «logica che ci ha portato all’esistenza» e della «logica profonda della vita». Eh no, signor teologo, non ci sto: nessuna logica ci ha portato qui, e nessuna logica governa la vita, e il suo tentativo di camuffare l’evoluzione della natura con una logica trascendente è degno di quella che un tempo si chiamava fisico-teologia, ovvero il tentativo di dedurre l’esistenza di un essere supremo dal meraviglioso ordine della natura, tentativo che la filosofia ha spazzato via da almeno due secoli.

E come toglie ogni grandezza alla fede, così Mancuso toglie ogni drammaticità al discorso sul senso o i sensi della vita. Nel suo orizzonte sembra non esserci spazio per quella possibilità che è sempre in agguato per chi pensa laicamente l’esistenza: la possibilità dello scacco, del naufragio, del fallimento. Proprio perché possiamo costruire con le nostre forze un senso, siamo sempre anche esposti al non-senso, alla perdita di significato, alla sconfitta, alla nera cura che, come sa Faust, sta in agguato alle nostre spalle, pronta a togliere ogni gusto e ogni interesse alla vita. Sono quelle situazioni-limite nelle quali Karl Jaspers, uno dei padri dell’esistenzialismo, vedeva le cifre della trascendenza traguardabili dall’interno stesso della vita: quella trascendenza che è invece sparita completamente dall’orizzonte in cui pure dovrebbe naturalmente trovarsi, quello di una visione religiosa del mondo e del vivere.

Se mettiamo da parte tutto questo, non abbiamo assolutamente nulla da obiettare al lungo catalogo di cose che possiamo fare per dare senso alla vita che chiude il libricino di Mancuso, e di cui diamo un assaggio: «Respirare lentamente; imparare a mangiare; provare sensazioni; leggere, studiare; riflettere, scrivere appunti; ascoltare; dialogare; essere sinceri; distinguere le bugie necessarie dalla menzogna; diventare consapevoli dei sentimenti; camminare nella natura; apparecchiare con cura la tavola; curare la bellezza fisica; amare la natura».

Quello che non capiamo è perché per fare queste cose sarebbe necessario coltivare «quello spazio vuoto dell’anima da cui solamente può scaturire il senso della vita», e perché dovremmo ringraziare «il Mistero» per tutto questo. Per esempio, non aveva bisogno di ringraziare il mistero chi diceva, sempre allo scopo di dare un senso alla vita: «Siate gentili con il prossimo, non mangiate i grassi, leggete un buon libro, fate passeggiate, e cercate di vivere in armonia con gente di ogni fede e nazione». Altrettanto saggio, non vi pare? Ma chi era? Mi sembra di ricordare che fosse il cameriere dei Monty Python.

© Riproduzione riservata