Non è facile stabilire chi l’abbia detta per primo, o meglio, in quale circostanza. Eppure è una frase famosa, che tutti abbiamo sentito mille volte, forte di un concetto ominoso che non smette di colpirci. «Coloro che non conoscono la storia sono destinati a ripeterla» avrebbe ammonito nel Settecento l’irlandese Edmund Burke, avversatore della rivoluzione francese e ammiratore sdilinquito di Maria Antonietta, che considerava un essere leggiadro dalle qualità ultra-terrene (brioches o non brioches). Probabilmente pensava al pericolo, poi rivelatosi concreto, che la scintilla rivoluzionaria si estendesse dalla Francia al resto del mondo, e certo, da conservatore tra i conservatori, la prospettiva doveva sembrargli ben fosca.  

Peccato che, nonostante l’attribuzione gli venga riconosciuta universalmente, nella sua opera non vi sia traccia del celebre aforisma. Una versione appena diversa – «Coloro che non riescono a ricordare la storia sono condannati a ripeterla» – si può invece rintracciare con precisione nelle opere del filosofo spagnolo George Santayana, vissuto a cavallo fra Otto e Novecento e un tempo così noto da finire sulla copertina di Time. In questo caso, la ripetizione del passato è vista come un male certo, come una dannazione, in linea con una visione progressiva della storia che ancora sopravviveva dal positivismo.  

A complicare la questione arriva però una terza versione della frase, attribuita nientemeno che a Winston Churchill: «Coloro che sono incapaci di imparare dalla storia sono condannati a ripeterla per la loro rovina». Traduco in questo modo il suo doomed, più cupo del condemned di Santayana, perché qui il primo ministro inglese parla di un pericolo preciso, e letale: il ritorno di forze storiche maligne che avevano portato il mondo intero sulla soglia della distruzione. Per questo Churchill scrive “coloro che sono incapaci di imparare”: per lui la storia è una lezione da apprendere, e non a caso, battuto Hitler, si cimentò in una ponderosa (ma godibilissima) storia della seconda guerra mondiale, che gli valse il premio Nobel per la letteratura.  

Ma è davvero così? La storia ha qualcosa da insegnarci? O aveva ragione Montale quando cantava che «la storia non è magistra di niente che ci riguardi»? Agli studiosi l’ardua sentenza, che è tecnica e filosofica, e non può essere decisa in poche pagine. Un indizio, però, lo possiamo dare, se non della verità, della percezione generale nella nostra cultura.

Termometro di un’epoca

Un tempo si diceva che la letteratura è il termometro di un’epoca. Se così fosse, non c’è dubbio che i nostri discendenti avranno un bel po’ da ragionare sulla prevalenza del giallo nella narrativa di fine ventesimo secolo, ma anche sulla forte ascesa di un secondo genere che è cresciuto lentamente e inizia a imporsi in questo inizio di terzo millennio: il romanzo storico.

Il romanzo storico, si sa, è nato prima del giallo. Ufficialmente lo inventò Walter Scott nel 1814, mentre Edgar Allan Poe scrisse I delitti della rue Morgue nel 1841. All’inizio tra i due generi non ci fu gara: gli imitatori di Waverley e Ivanhoe erano più numerosi e avevano più successo degli epigoni di Poe (fra i quali, curiosamente, figura anche Alexandre Dumas, che con L’assassinio di rue Saint-Roch, pubblicato nel 1860, provò persino ad accusare di plagio il collega americano). Poi, con l’arrivo di Sherlock Holmes e del Novecento, il secolo della scienza applicata all’investigazione, i rapporti di forza si invertirono, proiettando il giallo (con le sue innumerevoli ramificazioni: mystery, noir, thriller, true crime…) ai vertici della piramide narrativa.

Il romanzo storico continuò a interessare e vendere, certo, ma spesso fu costretto a dotarsi a sua volta di orrendi crimini e sagaci investigatori (un esempio su tutti: Il nome della rosa), e solo negli ultimi vent’anni ha iniziato a riprendere fiato come genere a sé. Ora, al termine di una lunghissima rincorsa, inizia a essere evidente che qualcosa è cambiato. Per dirlo all’americana: lo storico è il nuovo giallo?

Pensate alle classifiche editoriali, ma anche ai palmarès dei premi più quotati. In Italia negli ultimi due anni hanno sbancato I leoni di Sicilia di Stefania Auci (che si apre a inizio Ottocento e segue la vera storia della famiglia Florio), i “cugini ferraresi” di Daniela Raimondi (La casa sull’argine), il piccolo Amerigo raccontato da Viola Ardone (Il treno dei bambini) e naturalmente il premio Strega di Antonio Scurati, M, trilogia in fieri decisa a raccontare come un romanzo – ma con rigore documentario estremo – la figura italiana a un tempo più nota e meno conosciuta del ventesimo secolo, Benito Mussolini. E poi Rosella Postorino, premio Campiello con le sue Assaggiatrici (una storia riscoperta che ha incantato anche l'estero), e Andrea Tarabbia, altro premio Campiello con la vicenda del dimenticato Gesualdo da Venosa.

L’architettrice  di Melania Mazzucco il premio Strega l’ha mancato di poco: purtroppo aveva di fronte il talento travolgente di Sandro Veronesi (che pure a modo suo indaga nella storia, la storia di un uomo, radice di un futuro rivoluzionario). Ma se non è un successo arrivare a decine di migliaia di lettori con un romanzo di cinquecento pagine che ricostruisce filologicamente la vita, le opere e persino la lingua di un’artista secentesca trascurata dai manuali, cosa mai lo è?

Voglia di imparare

Anche a non considerare i risultati costantemente eccezionali di Marco Buticchi, Marcello Simoni e Matteo Strukul, che hanno fatto loro e rinnovato la lezione di maestri internazionali come Ildefonso Falcones e Ken Follett (in top ten nel 2020 con E fu sera e fu mattina), è facile accorgersi che il romanzo storico sta prendendo il sopravvento, al punto che gialli come L’inverno più nero di Carlo Lucarelli, Quasi per caso di Giancarlo De Cataldo e I delitti della salina di Francesco Abate iniziano ad attrarci tanto per l’aspetto storico quanto per quello investigativo. Il fatto – permettetemi di usare questa categoria storiograficamente sospetta – è che in Italia c’è voglia di storia.  

Si vede accendendo la televisione, si legge tra le righe dei giornali, si avverte scorrendo i feed di Twitter e Facebook e frequentando (quando si poteva) i festival storici sparsi per la penisola: nell’era delle fake news e della smemoratezza digitale, gli italiani hanno il desiderio di tornare a studiare il passato, per trovare radici e capirsi, per mettere punti fermi cui ancorare ragionamenti e visioni del mondo. Nietzsche parlava con nostalgia dell’inattualità, la condizione di chi è sganciato dall’incubo della storia e può spaziare beato nell’atemporalità filosofica, ma la nostra percezione, in questa società così liquida che anche le parole, orwellianamente, possono significare una cosa e il suo contrario, è molto diversa.

Come scrive Adriano Prosperi in Un tempo senza storia, «Si moltiplicano i segnali d'allarme sulla perdita di memoria collettiva e di ignoranza della nostra storia. Nella realtà italiana di oggi c'è un passato che sembra dimenticato». E certo dovrebbe dar da pensare che una nazione in cui è vietata l'apologia di fascismo consenta la vendita di calendari mussoliniani in tutte le edicole. Mentre nel mondo per definire pericolose derive estremiste sotto gli occhi di ognuno si usa il termine “fascismo” (non “nazismo”, non “sovietismo”, non “totalitarismo”: “fascismo”), da noi scala le classifiche il saggio benemerito di Francesco Filippi Mussolini ha fatto anche cose buone, che cerca di sfatare miti ancora in circolazione settantacinque anni dopo piazza Loreto. Per vedere il bicchiere mezzo pieno, però, basta pensare che sì, in giro c’è ancora molta ignoranza, ma anche molta voglia di sapere, capire, imparare. Basta pensare al fenomeno delle conferenze e dei podcast di Alessandro Barbero.

C’è fame di storie, in Italia, e c’è fame di storia. Prendiamo nota, dunque: il futuro del romanzo è nel passato.

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