Il cartoon italiano è un settore non così grande da confondere né così piccolo da esser trascurabile. Per questo può essere preso come un buon campione dei nessi che corrono fra le principali leve di sviluppo: i retaggi culturali, le pratiche di mestiere, le azioni delle imprese e, tutt’altro che ultime, le politiche di stato che in questo campo hanno mostrato il peggio e il meglio di quanto sanno combinare.

Le origini

Il cartoon italiano decolla nei tardi anni Cinquanta insieme a Carosello, l’access prime time del monopolio Rai dopo il quale ogni bambino andava a nanna. La rubrica era nata come una furbata per aggiungere ai proventi del canone anche un gruzzolo di ricavi pubblicitari. Ma c’erano da tenere a bada due totem del momento: il primo, assai concreto, richiedeva di andarci piano nel fare concorrenza ai giornali che campavano in larga misura di ricavi pubblicitari; il secondo pretendeva che le lodi delle merci fossero cantate con creanza, per non parere che l’americanismo la stesse avendo vinta. La sintesi geniale fu di creare una rubrica per gli spot dove però questi non erano padroni, ma dovevano accodarsi a cento secondi di puro spettacolo offerto dalla ditta.

Quel vincolo, nato nella testa di qualche burocrate creativo, fornì il destro alla nascita dello spettacolo “corto e seriale” (ogni inserzionista doveva produrne almeno cinque per altrettante settimane) basato su personaggi piuttosto che sul racconto di emozioni. E così esplosero le macchiette vere (l’Ispettore Rock della brillantina) e, specialmente, i protagonisti dei cartoon: Calimero, la Mucca Carolina, Gregorio, il guardiano del pretorio, Carmencita, Jo Condor e compagnia. In Italia quei personaggi divennero famosi come Paperino. Walt Disney, proprio lui in persona, passando per Milano non mancò di visitare qualcuna di quelle imprese che, pur lontane da Hollywood, occupavano migliaia di matite.

Walt, del resto, la sapeva lunga sulla forza strategica del ramo “animato” della comunicazione che più di altri smuove nello spettatore la seduzione fantastica e, nel contempo, la sensazione del reale. “Disegno animato”, dunque un ossimoro, è infatti la formula segreta del settore perché la seduzione del tratto di matita che invita a un viaggio nelle tensioni dell’autore si associa alla meraviglia per il movimento di cose che non son vere, ma figure.

Sinergie

Così, per calcolo o solo per fortuna, qualcuno nello stato, senza cacciare un soldo, attivò nel 1957 sinergie virtuose nel materiale concreto del paese: il monopolio Rai, le diffidenze degli editori rispetto alla tv, l’esistenza di talenti e maestranze di un cinema e di un teatro vivi anche se perennemente in crisi, l’amore a prima vista fra il seriale e la tv. Un impasto talmente forte da resistere per un ventennio. Ostili solo i tecnici pubblicitari, più o meno filiali o cloni dei Mad Men (i persuasori delle agenzie di Madison Avenue) che mal sopportavano la costrizione a finanziare quegli “inutili” cento secondi di spettacolo.

Però, fatti due conti, cento secondi per cinque ditte ogni sera per 300 giorni all’anno (al netto delle repliche) fanno la bellezza di 42 ore annuali di prodotto originale, gran parte del quale era fatto di cartoon rendendo robuste le basi dell’industria

Tutto crollò insieme al monopolio Rai, quando i Mad Men, di cui Berlusconi aveva più d’ogni altro comprese la forza e le intenzioni, presero la guida del sistema televisivo nazionale. Carosello ne fece subito le spese e venne perentoriamente cancellato. Lo stato che l’aveva fatto sorgere, neppure se ne accorse, e forse neppure si rese conto che in tal modo l’industria del cartoon finiva a carte quarantotto. Ma del resto lo sviluppo della tv commerciale, nel modo “deregolato” proprio solo e soltanto dell’Italia, era di per se un siluro per l’industria del cinema e contorni.

Nuovi frutti

Dopodiché, in capo a qualche lustro la foresta incendiata cominciò a ridare qualche frutto, grazie alla persistenza delle culture creative e dei mestieri che il cartoon l’avevano comunque conosciuto. Apparvero, a dispetto d’ogni santo, e certo senza alcun merito di stato, La Freccia azzurra e poi La gabbianella e il gatto, fino a spingere la Rai (grazie ai soldi del canone), a stanziare un budget, modesto ma mirato per animare personaggi del fumetto più nostrano, come Lupo Alberto, Corto Maltese, Geronimo Stilton o le WinX. Il triangolo fra industrie, budget Rai e qualche sovvenzione statale è stato sufficiente fino al 2017 a rafforzare le ossa del cartoon italiano. Fino al salto di qualità e quantità dell’intervento pubblico che si è determinato, a partire dal 2017, con la riforma degli incentivi tributari e delle sovvenzioni destinati a film, fiction, cartoon e documentari. Qualche centinaio di milioni l’anno che, di fatto, hanno messo lo stato nella posizione di garante dei capitali investiti in produzione.

Così, di colpo, il produttore italiano ha avuto una dote cospicua con cui costruire alleanze produttive a misura del mercato internazionale, non più elemosinando un ruolo purchessia, ma prendendo il controllo dell’intera filiera produttiva. In questo modo crescono i posti di lavoro a ogni livello: progettazione, scrittura, invenzione dei prototipi, sviluppo del disegno, finalizzazione del prodotto. Tant’è, affermano concordi gli operatori del settore, che l’occupazione è tornata al livello dei seimila addetti, come quando c’era Carosello. Ma il tempo è passato e oggi si può puntare assai più in alto vista la richiesta senza fondo di cartoon.

Non solo quelli che fanno concorrenza a Disney, ma anche i tanti necessari per arricchire il linguaggio dei documentari e dei prodotti learning o a dinamizzare l’impronta grafica dell’intrattenimento in generale. Purché restino fermi i caposaldi delle strategie collaudate in questo campo: la funzione di volano editoriale e finanziario dell’emittente pubblica, orientato allo sviluppo e non all’assistenza clientelare e l’uso del fisco a supporto di una visione di sistema. Coi cartoon è andata bene. Del resto avremo modo di parlare.

 

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