Ricordo il terremoto dell’Ottanta in Irpinia, avevo quattro anni. Lo ricordo perché come ogni estate arrivai da Milano, e quasi era crollata la casa dei miei nonni paterni. Una disgrazia, ma poi vissero nella promessa: la casa sarebbe stata ricostruita, più bella, più grande, su due piani. Durò anni: tutti i paesi della dorsale interna tirarono avanti su quella promessa.

Mia nonna materna invece, in quello stesso 1980, nella controra mi sussurrava le storie di un’ava che aveva combattuto quella che chiamava guerra civile italiana. I suoi occhi mai avevano luccicato tanto (quello strano luccichio conteneva un misto di vergogna e orgoglio), mentre parlava di quella brigantessa che aveva lottato dentro i boschi e sulle montagne «per creare un paese più giusto». Omise, alla fine, che la guerra, la nostra ava l’aveva persa. Quindici anni dopo, di fronte alla casa ricostruita dei miei nonni paterni conobbi un vecchio cugino di famiglia, che portava lo stesso cognome di mia nonna: Ambrico.

Per tutti in paese (Grassano, il borgo che ospitò Carlo Levi, che per inciso quarant’anni prima volle ritrarre mio padre in uno dei suoi dipinti dei bambini della miseria) era stato “l’onorevole Ambrico”. Io al tempo studiavo filosofia, lui mi confidò soddisfatto che la sua prima laurea (ne aveva poi prese quattro) era in filosofia. Gaetano Ambrico era stato il propugnatore dell’Inchiesta sulla miseria nel neonato parlamento dei primi anni Cinquanta. Tra i fondatori della Democrazia cristiana, ne rappresentava la sinistra, e vedeva nell’imminente prima riforma agraria italiana l’occasione di far valere anche le ragioni di chi la terra la lavorava.

L’Italia, paese a economia agricola, si trovava a un bivio. Perse, l’onorevole Ambrico, anche lui. La riforma agraria fu compiuta sul modello delle industrie americane, lui fu cacciato dal partito (De Gasperi ne storpiò pubblicamente il cognome in “Lombrico”) e alla fine si mise a insegnare, a «fare politica concreta», diceva.

Sogno di una nazione

Queste due piccole note biografiche giustificano forse la mia passione per uno scritto politico di Giacomo Leopardi, il Discorso sopra lo stato presente del costume degli italiani. Al tempo, in Italia non circolavano molti pamphlet sui caratteri nazionali. Ce n’era uno di Pietro Calepio, un altro di Giuseppe Baretti pubblicato a Londra, e uno pubblicato a Berlino da Carlo Denina. Ce n’erano molti, invece, redatti dagli intellettuali stranieri che tra Sette e Ottocento percorrevano l’Italia nei loro gran tour.

Nessuno fu gentile, tutti scrissero grosso modo le stesse cose. Lo fece Michel de Montaigne. Lo fece Madame de Staël, in Corinne ou l'Italie. In Italia non c’è «nessun rispetto per i costumi» e «indifferenza verso l’opinione pubblica», gli italiani «amano più la vita che gli interessi politici, i quali non li toccano affatto, perché non hanno una patria», scrisse. Lo stesso fece Hegel, nelle Lezioni sulla filosofia della storia: «Il carattere del popolo manifesta l’individualismo, che non giunge all’universalità. L’assoluto spezzettamento atomistico è sempre stato il carattere degli abitanti d’Italia. (…) L’inganno e l’infamia sono qui a casa propria».

Percy Bysshe Shelley scrisse che in Italia «la natura compensa la deformità e la degradazione degli uomini». Lo fece Ugo Foscolo, che prima di lasciare l’Italia scrisse che era un organismo abbandonato a una «slow letharghic consumption» («lenta e letargica consunzione»), destinato a diventare presto «a lifeless carcass» («una carcassa senza vita») . E così anche Leopardi in quel piccolo capolavoro di lucidità che è il Discorso descrive un paese che non è patria né nazione ma anarchico aggregato di individui; un luogo pieno di ricordi (due volte, nel passato, «superò tutte le nazioni») ma vuoto di realtà; una terra cinica e nichilista dove il vuoto dell’esistenza si manifesta senza il paravento dei riti sociali; troppo poco civile per godere dei benefici delle società europee più colte, ma troppo avanzata per giovarsi delle illusioni che danno energie alle società arretrate. Raramente siamo stati più analitici, e profetici. Era il 1824, erano più o meno gli stessi anni in cui Alessandro Manzoni, Giovanni Berchet, Carlo Cattaneo, Giuseppe Verdi, ognuno a modo suo sognava la fondazione di un paese unito e giusto, in cui si cacciassero «l’inganno e l’infamia» e da un anarchico aggregato di individui si arrivasse a una nazione.

Il tradimento

Ora, c’è stato un momento precisissimo in cui queste aspirazioni si sarebbero davvero potute realizzare dando un’anima del tutto diversa al nostro paese, e quindi a noi. Quel momento furono i sei mesi scarsi della spedizione in cui Giuseppe Garibaldi partì dalla città per eccellenza (Torino) verso i paesi sperduti sulla dorsale interna, per consegnare il sud dei Borbone nelle mani del nord dei Savoia. Quella manciata di mesi in cui, come desiderava Leopardi, «si cercò di fare una patria». Accadde, però, l’opposto: quelle settimane furono infatti la consumazione di un tradimento. C’è qualcosa di peggio da infliggere all’animo di chi sogna un avvenire?

A essere tradite furono le promesse di giustizia e modernità con le quali, in una serie fittissima di comizi per i borghi della dorsale interna, dalla Sicilia a Napoli, l’esercito dell’eroe dei due mondi riuscì a convincere decine di migliaia di uomini a seguirlo (dai mille scarsi con cui era partito). La promessa principale era di abolire finalmente anche in Italia la schiavitù del latifondo. Garibaldi prometteva di voler creare quella “società” di cui Hegel, Madame de Staël e Leopardi lamentavano l’assenza. Prometteva di redistribuire le terre, di permetterne l’uso civico (raccogliere frutti in un bosco, spigolare, pescare, cacciare ghiandaie o gallinelle), di fare insomma dell’Italia un paese avanzato, al pari degli altri paesi europei. Questo avrebbe emancipato il popolo, l’avrebbe alzato a “società”, cioè a borghesia. Le promesse furono pronunciate, il sud fu consegnato al nord da un esercito di allocchi che tornarono (per chi tornò vivo) ai loro paesi sparpagliati sulla dorsale interna con un pugno di mosche. Così, all’indomani dell’unificazione, scoppiò la guerra civile, combattuta per ottenere il mantenimento di quelle promesse, e i suoi soldati furono quelli che non riuscirono a ingoiare il Gattopardo che da allora sarebbe stato tatuato sulla pelle degli italiani.

Italiana

Le prove di tutto questo – le ragioni di questa guerra civile rimossa e del tradimento altrettanto rimosso – da 160 anni se ne stavano nascoste dentro la vita di una donna realmente esistita. E questa vita era a sua volta nascosta nei faldoni dei processi a suo carico, istruiti nel 1864. La vita, e i processi, sono quelli di una giovane donna dal nome di Maria Oliverio, passata alla storia come Ciccilla. L’unica donna ad aver supportato Garibaldi (era sposata con un garibaldino) e ad aver poi guidato una banda di briganti nella guerra civile che per cinque anni si è combattuta dentro i boschi e sulle montagne dell’Italia appena creata, dalla Sicilia all’Emilia Romagna. In Italiana (Mondadori) racconto la sua storia umana, sentimentale e politica, partendo proprio dalle carte dei suoi processi, mosso dalle avventure di una vita tanto incredibile e dalla convinzione che la letteratura dopo 160 anni possa adempiere a uno dei suoi compiti: raccontare i rimossi, privati o collettivi che siano. Fu Alexandre Dumas il primo a provare l’ossessione per la vita di Ciccilla. La raccontò in sette puntate, sul giornale che dirigeva, in quel 1864. Voleva farne un romanzo, alla fine gli mancò il coraggio per un’eroina femminile e per il racconto di un’Italia spezzata in due e tradita fin dalla nascita. Così alla vita di Ciccilla e a quella di suo marito Pietro Monaco ispirò Robin Hood. Sembra allora adesso una cosa quasi naturale, essendo stata l’ossessione dell’inventore della narrazione a puntate, che Italiana diventerà una serie tv internazionale.

Per tutte queste ragioni desideravo portare Italiana allo Sponz, il festival di Vinicio Capossela a Calitri, in Alta Irpinia, che quest’anno prende il nome di “Sponz all’Osso” (e che si terrà da domani a domani 29). Perché chi siamo, se come Leopardi vogliamo fare lo sforzo di metterlo in questione, è fatto più di aree interne, di spina dorsale, che di aree urbanizzate. Perché nelle nostre genealogie si affastellano gesti che per secoli hanno avuto a che fare più con la protezione, con il lento lavorìo della terra recalcitrante e dura, più con ciò che è coperto che con ciò che è esposto. È da poco che le aree interne hanno preso a vedersi come sottrazione, come negativo rispetto all’esplosione delle città. Allora Manlio Rossi-Doria le ha nominate “terre dell’osso”, per contrasto alla polpa delle aree urbane che trainano lo sviluppo. È perché appartiene all’osso che lo Sponz è una festa che, come dice Vinicio, è un sovvertimento dell’ordine, un’interruzione del tempo dell’utile, un’occasione per riscoprirsi figli della geografia dorsale e per praticare l’arte dell’incontro come mutuo soccorso contro la vita o la malasorte. Siamo fatti di quei paesi dimenticati, di quei paesi interni figli di un tradimento che perciò non hanno smesso di svuotarsi mai, verso il nord o di là dal mare. È lì, su quella dorsale italica, che la storia spinge anche noi a tornare, e non solo per l’altura e la frescura di questi tempi surriscaldati, ma per il movimento centrifugo con cui la pandemia ci strattona. E a saper guardare è nelle ragioni del tradimento che si nasconde la salvezza, nella ricostruzione dopo un terremoto la nuova casa.


Lo Sponz fest 2021 si terrà dal 25 al 29 agosto a Calitri e in Alta Irpinia. Maggiori informazioni sul sito www.sponzfest.it

 

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