Verso la fine degli anni Novanta, tra alcuni gruppi rap italiani cominciò a diffondersi il concetto di “scena vera”: un misto di canonizzazione dello stile, esaltazione della cultura delle autoproduzioni e delle produzioni dal basso – con conseguente disprezzo per chiunque raggiungesse un livello di notorietà tale da permettergli di lasciare il circuito degli aficionados e per le iniziative di massa promosse da radio e emittenti televisive – e ritorno alle origini, accompagnato dalla scoperta o dalla riscoperta dei gruppi e degli artisti americani che avevano acceso la miccia della “vecchia scuola”.

Per il movimento hip-hop del nostro paese fu un vero toccasana che permise al sistema di svilupparsi, al suono di raffinarsi e alle band di affermarsi gettando le basi per quello che sarebbe stato il periodo della massima espansione del genere, fino all’assoluta normalizzazione e commercializzazione di una musica che, durante quella che oggi viene definita a ragione golden era, era considerata di nicchia. Per chi ha vissuto quei tempi da entusiasta, fu una disfatta.

Ho idea che nella comicità stia succedendo la stessa cosa. O, forse, che vorrebbe succedere la stessa cosa, con qualche difficoltà in più. È stato Saverio Raimondo a dirmi, prima dell’uragano Covid e della conseguente incertezza stesa come un pesante velo nero sugli spettacoli dal vivo del quale solo oggi vediamo i margini, «Mi auguro che la stand-up comedy abbia lo stesso destino del rap e che tra qualche anno non ne vorremo più sentir parlare». Non è ancora così, ma per un po’ è sembrato che questa fosse l’unica via possibile. Intanto, però, alcuni degli elementi caratteristici della “scena vera” sono ben distinguibili nel complicato marasma confusionario che è il panorama comico.

Puristi e politicamente corretto

Ci sono i puristi: quelli per i quali la comicità è solo stand-up, si fa con un palco e con un microfono (mi sembra di sentire echeggiare le rime di Kaos One o Dj Gruff), e che si definiscono eredi di Bill Hicks e George Carlin, come se dagli anni Ottanta in avanti non fosse più successo niente, o sono pronti a beatificare Louis C.K. e Dave Chappelle, come se non fosse mai successo niente prima del 2016. I meno radicali della frangia integralista guardano all’America, perché dall’America tutto è cominciato, e con nostalgia a una generazione di comici che, parallelamente allo sviluppo del nostro rap underground, ha animato l’epoca d’oro dei comedy club ai tempi delle sitcom miliardarie e delle svolte eroiche: Jerry Seinfeld, Dave Attell, Jim Carrey, Sarah Silverman e via dicendo. Per le nuove generazioni, che pure esistono e sono attivissime, c’è poco spazio di attenzione.

La battaglia combattuta dai puristi si sviluppa sul campo dell’abusatissimo concetto di politicamente corretto, che aleggia come uno spettro fiacco e bolso su tutta la produzione comica contemporanea e che fa sì che l’ennesimo comedy special incattivito del britannico Ricky Gervais su Netflix venga guardato con maggiore attenzione rispetto a un debutto fresco e interessante come quello di Taylor Tomlinson, o del miracolo di James Acaster, o ancora della meravigliosa prova di resistenza di Bo Burnham che ha messo in piedi una specie di musical chiuso nella propria stanza e sfibrato dal lockdown.

E poi ci sono Katherine Ryan, Joel Kim Booster, Phil Wang, Michael Che, Matteo Lane; raffinati ritorni come quelli di Wanda Skyes, Adam Sandler, Norm Mcdonald, Marc Maron. Ma se Gervais spara un meme come «Se vi offendete non è detto che abbiate ragione», non c’è cifra stilistica che tenga e i duri e puri (uomini, etero, che raramente hanno chiuso una battuta con soddisfazione) ci si lanciano senza guardarsi indietro.

Generazione di mezzo 

Appena prima dello iato forzato dalla pandemia, una promettentissima generazione comica di mezzo – e cioè a metà strada tra la vecchia scuola satirica televisiva e il nuovo corso ancora tutto da costruire con la scoperta degli open mic – aveva cominciato ad animare i comedy club che spuntavano come funghi nelle città.

Ne sono usciti Edoardo Ferrario, Saverio Raimondo e Francesco De Carlo, i primi a mettere piede su una piattaforma con uno speciale, Luca Ravenna, che poi con Ferrario ha avuto l’intuizione del podcast Cachemire, Michela Giraud, che ha debuttato su Netflix nel 2022, e il vero boy wonder della scena, Valerio Lundini. Ma, intendiamoci, non erano gli unici: parlando di podcast va citato il lavoro perfetto di Daniele Tinti e Stefano Rapone, Tintoria; e poi Laura Formenti, Daniele Fabbri, che è stato in grado di ridare un po’ di lustro alla satira politica, Davide Calgaro, Alessandro Ciacci, Emanuela Fanelli.

Erano il sale della terra di un sistema in divenire, la promessa di una nuova epoca che però si è vista costretta a subire la più brusca battuta d’arresto che si potesse immaginare. Ma, proprio come per l’hip-hop, il tempo di riflessione si è rivelato un valido veicolo per la necessaria scrematura. Molti dei puristi non hanno resistito al vuoto e la discussione, ancora più stucchevole di quella sul politicamente corretto, riguardo a chi si debba il merito di aver importato la stand-up comedy o alla presunta guerra tra stand-up e cabaret, ha lasciato spazio libero per una nuova infornata di talenti.

Nuovi talenti

Mentre in tv, tra Zelig e LOL, spopolano le operazioni nostalgia che lasciano il tempo che trovano, su palchi e palchetti improvvisati tornano ad affacciarsi volti nuovi e cominciano, finalmente, a sentirsi battute che hanno a che fare con il contemporaneo e non più soltanto con l’idea privata di comicità anglosassone sviluppata finora dai singoli. Il rap autoreferenziale contro il, ben più interessante e al passo coi tempi, conscious rap, per restare in metafora.

La nuova generazione comica italiana, non necessariamente anagraficamente giovanissima, si fonda sulle seconde generazioni, libere dalle definizioni di genere e, soprattutto, che se ne fregano di costruirsi attorno inutili sovrastrutture. Ridono per ridere e fanno ridere nell’ambito di ciò che conoscono.

L’afro-italiano Tay Vines, sostanzialmente disinteressato alle polemiche e votato a divertire pescando dalla sua cultura e dalle sue origini, è senz’altro più interessante di qualsiasi discussione possa sorgere riguardo all’eredità spinosa di Bill Cosby; e così la veneta di origine giapponese Yoko Yamada, il congolese Nathan Kiboba, Matteo Fallica e Daniele Gattano, fieri rappresentanti della “lobby gay”; voci come quelle di Eleazaro Rossi, Tommaso Faoro, Pietro Casella e Maristella Losacco, più legati alla tradizione, restituiscono freschezza ai fondamentali; Giada Biaggi in coppia con la cantante di origini lituane Popa rende completa giustizia al rispolverato concetto di varietà, calato nel reale.

La comicità è viva e vegeta e sta evolvendo. Agli albori dell’hip-hop, quando ancora non c’era niente di definito e la nuova musica era ancora oscura per le masse, Jarobi White aveva dichiarato: «I’m defined by my music». Chance the Rapper si è poi preso la briga di aggiustare il tiro, quando ormai il rap era dappertutto, riappropriandosi del diritto di innovare: «I define my music». Non c’è sintesi migliore: l’epoca della derivazione è finita e i nuovi comici italiani sono pronti a ridefinirsi, facendo slalom tra il vintage e liberandosi di un bagaglio culturale sterile e troppo pesante per chi non sa più che farsene.

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