Risulta quanto meno singolare che una giuria, chiamata a valutare opere di argomento religioso, come racconta James Elkins in Lo strano posto della religione nell’arte contemporanea (Johan & Levi), si trovi a escludere un’opera, già selezionata, dopo aver appreso che l’artista, una suora, aveva voluto rappresentare il paradiso. Se per un verso è comprensibile quanto sia difficile realizzare in àmbito politico un theo-ethical equilibrium, come ha sostenuto Jürgen Habermas all’inizio del nuovo millennio, contemperando i valori dei credenti con i princìpi costituzionali laici, per l’altro è più difficile accettare che, nel mondo dell’arte, sia negato il diritto di cittadinanza a un’opera legata a motivazioni religiose. 

Lo storico dell’arte e critico americano James Elkins, che insegna alla School of the Art Institut di Chicago, affronta nel suo libro un tema fondamentale e, al tempo stesso, posto ai margini della riflessione estetica quando si parla concretamente dell’arte che incontriamo nelle mostre o nei musei d’arte contemporanea.

Quella che noi chiamiamo arte religiosa viene, in realtà, definita come arte di soggetto religioso, nell’àmbito del cristianesimo orientale. Nella “Teologia della bellezza” degli ortodossi l’iconografo concepisce il suo dipingere come un pregare e ritiene di aver svolto pienamente il proprio compito nel momento in cui l’icona appare come una teofania, “non fatta da mano d’uomo”. 

L’artista in primo piano

Nella nostra tradizione il culto della creatività del genio pone invece in primo piano la soggettività dell’artista, rendendo problematico il rapporto con la fede religiosa. La secolarizzazione, che nella modernità ha segnato anche la pratica artistica, ha progressivamente estromesso, anche se non del tutto, le figure bibliche ed evangeliche dallo spazio figurativo.

Ciò non è riconducibile a una intenzione deliberata, ma è il frutto di un processo storico, i cui risvolti si possono riconoscere in ogni campo. Nessuno oggi condividerebbe però l’opinione positivistica secondo cui l’affermarsi della visione scientifica del mondo avrebbe reso inutili le credenze religiose. Assistiamo infatti, proprio nei paesi industrializzati, a un proliferare di varie forme di spiritualismo e, in altre realtà sociali, all’affermarsi di minacciosi fondamentalismi. È allora necessario porre le condizioni per avviare un dialogo, superando pregiudizi e assolutizzazioni. 

L’incomunicabilità del sacro

La singolarità dell’approccio di Elkins alla questione risiede nella sua scelta di partire dall’esperienza concreta della sua attività di docente, che lo porta a descrivere le diverse posizioni sull’argomento, con l’intenzione di definire un lessico che possa venire in aiuto ai giovani artisti e ai loro docenti quando si trovano a parlare di arte e religione. Individua così alcune parole chiave, come, ad esempio, il termine “Numinoso”, adottato da Rudolf Otto nel suo celebre saggio, Il sacro, del 1917, in cui lo studioso tedesco descrive, nella teofania, il manifestarsi immediato del divino, che il linguaggio non riesce a esprimere.

L’incomunicabilità del sacro è strettamente legata alla teologia negativa di Dionigi Areopagita (V/VI secolo), per il quale di Dio possiamo solo dire ciò che non è. Sfugge, infatti, a ogni possibilità umana di concettualizzazione.

È evidente che la suggestione delle pagine di Dionigi può condurci a cogliere alcuni aspetti essenziali della cultura contemporanea, non solo figurativa, dalla pagina bianca di Mallarmé a Silence 4’33 di Cage, per giungere a Ludwig Wittgenstein. Varie espressioni dell’arte visiva portano con sé il messaggio della teologia negativa, ove si pensi, ad esempio, al minimalismo. Al di là di opere come la Cappella di Santa Maria del Rosario di Matisse, a Vence, nel modernismo la religiosità non si identifica, in genere, nell’arte contemporanea, con una confessione. La tensione verso la trascendenza viene espressa rifiutando, di solito, la simbologia che nel passato ha caratterizzato l’arte religiosa.

Esempi

Il pensiero non può non andare alla cappella aconfessionale di Mark Rothko, a Houston. I monocromi e, dunque, la totale assenza di figurazione, rappresentano il corrispettivo visivo del silenzio su Dio che incontriamo nella teologia apofatica di Dionigi e dei mistici, in occidente come in oriente. Anche le 14 stazioni della via crucis di Barnett Newman, declinano, in forma astratta, la narrazione evangelica, come se l’artista intendesse esprimere la sacralità del suo messaggio, al di là delle immagini immediatamente riconoscibili, codificate tanto dalla devozione, quanto dalla storia dell’arte.

Lo scenario non cambia in epoca postmoderna, come dimostrano per esempio gli interventi nelle chiese degli artisti contemporanei italiani. Stefano Arienti ha decorato tra l’altro il duomo di Vigevano, la chiesa di San Giovanni XXIII a Bergamo e la chiesa di San Giorgio, a Martinengo. Nella sua scelta di collocarsi sulla soglia tra astrazione e figurazione emerge la volontà di oltrepassare confini confessionali.

Nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, in Ticino, la collaborazione di Enzo Cucchi con Mario Botta schiude uno spazio di contemplazione che predilige la forma astratta. La figurazione della via Crucis di Mimmo Paladino, concepita per la chiesa di San Paolo, a Foligno, progettata da Massimiliano e Doriana Fuksas, non si propone un intento narrativo, ma allusivo e simbolico.

Nelle crocifissioni o figurazioni che rimandano a narrazioni evangeliche di Nicola Samorì l’elemento concettuale irrompe sempre in modo problematico nella trama figurativa. L’artista attribuisce alle sue opere un valore religioso, non le ritiene tuttavia un invito alla preghiera, né un ostacolo alla preghiera.

Mescolare le confessioni

Situazione ben diversa quella dell’artista armeno Rafael Megall, che porta con sé il patrimonio iconografico dell’oriente cristiano. Gli elementi che fanno da sfondo alle immagini si mostrano, al tempo stesso, come griglie e come decori che ricordano simboli della tradizione cristiana. Megall non concepisce però le sue opere come religiose. Da questi esempi si comprende come alla indicibilità del divino corrisponde la difficoltà di trovare immagini che possano rappresentarlo. L'esperienza del sacro, più che nella bellezza, si rivela nel sublime, stravolgendo i limiti della forma. Ecco perché anche nella figurazione a soggetto religioso l'aspetto allusivo prevale sulla narrazione senza mai vanificarlo.

L’esigenza di progettare luoghi di culto interconfessionali, in cui l’espressione artistica del divino elude riferimenti a specifiche tradizioni religiose, è legata alle condizioni specifiche della cultura americana. L’idea del saggio di Elkins nasce proprio dal tempo e dal luogo in cui è stato concepito. Se non si fosse trovato oggi in Nord America, a Chicago, scrive, il libro non avrebbe visto la luce. Nella mescolanza di credenze presenti in quella realtà, prosegue, un solo gruppo si distingue dagli altri, e sono gli studenti cristiani, e in particolare i cattolici.

Secondo Elkins la mancanza di un dialogo sul rapporto tra arte e religione priva gli artisti di strumenti critici. Si rende necessario colmare l’abisso che separa quanti ritengono che la religione è costitutivamente legata alla creatività da quanti sostengono che il modernismo si identifica con un una forma di radicale laicità. Questo nonostante non manchino eccezioni, basti pensare in àmbito astratto ad artisti del primo Novecento come Rotkho o Kandinsky e a contemporanei come Sean Scully, Ross Bleckner, Anish Kapoor o Peter Halley, solo per fare qualche esempio.

Accettare la spiritualità

L’autore ritiene che tutti i tentativi di trovare nei dialoghi con i suoi studenti un terreno di confronto sfocino nella conclusione che è «pressoché impossibile mettere insieme arte e religione». Se è problematico far dialogare oggi arte e religione, appare sicuramente discutibile l’atteggiamento di chi valuta negativamente un’opera se ravvisa in essa una evidente ispirazione religiosa.    

Elkins conclude la sua trattazione riprendendo un saggio di Maurice Blanchot, di cui parafrasa un passo, scrivendo che «Dio non appartiene al linguaggio dell’arte, di cui questo nome pure fa parte, ma allo stesso tempo, in modo che è difficile da determinare, Dio fa ancora parte del linguaggio dell’arte, anche se questo nome è stato accantonato». Ci troviamo di fronte a un tema tanto fondamentale quanto radicalmente aporetico, dunque pressoché irrisolvibile, che richiede di essere affrontato con uno spirito dialogico, in grado di declinare il theo-ethical equilibrium, di cui parlava Habermas, in un theo-aesthetic equilibrium.

In una condizione di postsecolarismo, in cui il superamento della contrapposizione radicale tra laicità e fedi ha schiuso un ampio spazio di confronto, le tensioni religiose e le passioni civili si intrecciano senza che si possa tracciare, fra di esse, un confine netto. In questo clima, il pluralismo esclude il monopolio della verità. Una laicità matura, che non voglia riproporre rigidi schemi ideologici, non può allora ostracizzare i contributi che una spiritualità diffusa, al di fuori di ogni spirito di crociata, potrà offrire alle democrazie, tanto sul piano della creatività e dell’esperienza estetica, quanto sul piano etico-politico.

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