Ho consumato notti insonni sugli zombie di The Walking Dead. E la console per me è una terra straniera. Ma esplorando i risvolti del vortice scatenato da The Last of Us, la serie targata Hbo Max tratta dal videogioco survivalista di Naughty Dog più pauroso e più premiato di sempre, ho pensato alla celeberrima folgorazione di Jon Landau al suo primo contatto live con il Boss : «Ho visto il futuro del rock, e il suo nome è Bruce Springsteen».

Parafrasarla alla lettera sarebbe da scellerati, ma è chiaro che il cortocircuito attivato da questa serie influenzerà molto il nostro futuro di spettatori. Il monitoraggio del contagio (quello mediatico surclassa quello epidemiologico della finzione) ha già tracimato dai siti tech per approdare alle colonne nobili di New Yorker, di Washington Post e New York Times, complice l’orgia social e il dilagare di chiose sulle più impercettibili minuzie dell’adattamento.

Una questione ambientale

Il business era nei piani, gli ascolti salgono a due cifre di settimana in settimana e le vendite del videogioco sono ripartite a saetta. Non era nei piani che dopo soli tre episodi (in Italia, in contemporanea con gli Stati Uniti, la serie è su Sky Atlantic e in streaming su Now) The  Last of Us diventasse un fenomeno di costume.

Su un fattore però nessuno riflette: alla fortuna della serie contribuisce non poco una nuova, tanto più urgente e diffusa che nel passato, coscienza ambientalista. Su questa sensibilità in crescita esponenziale, almeno tra i giovani, si sta dirottando la produzione delle piattaforme. Dal 17 marzo su Apple Tv+ troveremo anche Extrapolations - Oltre il limite, con Meryl Streep e Sienna Miller a servizio di storie che riflettono sugli effetti caotici del cambiamento climatico nella nostra vita quotidiana.

Uomini-fungo

La serie è stata scritta in tandem da Neil Druckmann (il quarantacinquenne israeliano creatore del videogame, anche scrittore di fumetti) e da Craig Mazin (consacrato dalla miniserie quasi-capolavoro Chernobyl). Nel 2023 dell finzione, una pandemia letale ha decimato il genere umano.

Nel gioco, che dal 2013 ha venduto ad oggi 18 milioni di copie, devi assistere Joel e Ellie, coppia disfunzionale di padre-e-figlia (non biologici) nella loro odissea attraverso l’inferno. Joel (Pedro Pascal) è un divo del nuovo star system da streaming, Ellie (Bella Ramsey) sembra uscita da un fumetto di Tintin.

È un concept sfruttato fino alla nausea: da The Road di Cormac McCarthy (il romanzo poi diventato film) a The Postman di Kevin Costner, da The Walking Dead fino al più recente Bones and All di Luca Guadagnino, le declinazioni sono infinite. Qui però la minaccia non viene dal solito virus distopico ma dal surriscaldamento, anche lieve, del pianeta.

Nell’incipit del primo episodio un espertone da talk show (il John Hannah invecchiato di Quattro matrimoni e un funerale, per inciso) illustra la mutazione possibile dei funghi che, in natura, infettano di allucinogeni gli insetti parassiti e ne condizionano l’attività. Le variazioni climatiche potrebbero produrre una evoluzione che intacca e governa il cervello umano.

Il fungo Cordyceps di The Last of Us, veicolato attraverso i cereali, è pura sci-fi, ma mette i brividi. Gli infetti non sono più zombie o cannibali ma folli e voraci uomini-fungo. 

La fine della maledizione

Non è però il metaforico surriscaldamento delle nostre comuni coscienze a fare di questo show una pietra miliare della tv dell’intrattenimento. Il vero colpo di genio consiste nell’aver vampirizzato l’esigente platea dei videogiocatori, amalgamandola con quella dei consumatori di cinema.

Sono pianeti contigui ma saldamente distinti: chi si consuma dita e meningi alla console è geneticamente diverso dal binge watcher da piattaforma. La fusione a freddo delle platee funziona grazie alla riproduzione perfetta del gioco in modalità live action: lo sport del momento, che negli Usa è diventato virale, consiste nel confrontare scena per scena, inquadratura per inquadratura, le due versioni.

Si infrange la storica maledizione che ha colpito ogni tentativo di saccheggiare i videogiochi per ricavarne blockbuster. Rolling Stone ha di recente compilato un divertente catalogo delle nefandezze in materia. Il recordman dei tradimenti è Uwe Boll, cineasta tedesco che può vantare, unico nella storia, una petizione online promossa dai videogiocatori di ogni latitudine per intimargli di chiudere bottega.

Le circostanze della sua escalation dovrebbero farci riflettere sullo spensierato impiego del nostro tax credit per finanziare tanta produzione audiovisiva trash, inutile e indigeribile. A inizio millennio, Boll sfruttò le agevolazioni fiscali del governo tedesco per accaparrarsi i diritti cinematografici di vari videogiochi d’avventura sulla cresta dell’onda.

A tappe ravvicinate ha sfornato Alone in the Dark, BloodRayne, In the Name of the King (tratto dalla saga di Dungeon Siege), tutti polpettoni spolverati di star come Christian Slater, Ben Kingsey, Jason Statham, perfino i poveri Burt Reynolds e Ray Liotta buonanima. Bob Hoskins è inciampato nella tappa più imbarazzante della sua carriera diventando l’idraulico della Nintendo per Super Mario Bros.

I Tomb Raider dello schermo erano avvilenti, nonostante le grazie di Angelina Jolie, prima, e di Alicia Vikander poi, anche se ora Amazon progetta una serie affidata alla Phoebe Waller-Bridge di Fleabag. Esperimenti come Assassin’s Creed e Uncharted  hanno incassato al botteghino ma sono stati snobbati dal popolo dei videogiocatori. Può sembrare una bazzecola a chi non appartiene alle generazioni della console, ma stiamo vivendo una svolta epocale.

Cultura pop

I 100 milioni di dollari spesi per i primi nove episodi sono un investimento a profitto della fedeltà estetica e narrativa. Ma è proprio la fedeltà, che include i tempi martellanti del gioco, a consentire digressioni e varianti. Il terzo episodio, per dire, è un film nel film.

A fornire il titolo e la chiave romantica è una canzone di Linda Ronstadt, Long Long Time. La struggente love story queer tra due personaggi secondari, Frank (Murray Bartlett) e Bill (Nick Offerman) interrompe il ritmo ansiogeno del racconto. Ma a sorpresa i più intransigenti dei videogiocatori non protestano, esultano.

Anche nel buio della civiltà, dietro una rete elettrificata contro gli infetti e i saccheggiatori, c’è tempo per l’amore di coppia e per una effimera normalità fatta di pianoforte, jogging e fragole coltivate. I nuovi codici inclusivi Lgbtq+ sono astutamente rispettati e lo spettatore respira, con l’accorgimento di una inquadratura finale (la finestra aperta della casa borghese dei due) che rinvia al menù principale del videogame.

Come showrunner, Druckmann e Mazin detteranno i manuali del futuro. È un lavoro di cesello che sfrutta anche tutto il potenziale nostalgico della musica. Never let me down again dei Depeche Mode chiudeva in bellezza il primo episodio, il codice dei sopravvissuti (resistenti?) per comunicare tra loro è il catalogo Billboard delle hit anni Settanta e Ottanta.

The Last of Us è un distillato di cultura pop americana che fruga, come il videogioco dieci anni fa non era in grado di fare, nell’esperienza pandemica planetaria che abbiamo vissuto. I mostri da combattere non sono solo i mutanti.

Davanti all’emergenza, la nazione si disgrega, il potere militare massacra in massa i sani – con fosse comuni a cielo aperto – perché chi è morto non può essere infettato. In clandestinità, la formazione denominata Le luci è la nuova Resistenza. Da spettatore, scopri che è ancora un gioco interattivo. Senza armi virtuali da conquistare. Solo per il cervello.

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