Ludovica Rampoldi: «È importante raccontare donne complicate e sbagliate»

Due coppie, due generazioni a confronto e, in fondo, quattro solitudini si incrociano in un gioco di tradimenti, desideri e ossessioni nell’opera prima di Ludovica Rampoldi, eccellente sceneggiatrice di film come Esterno notte, Il traditore o di serie come The Bad Guy. Con uno sguardo lucido, quasi da entomologa, la regista ci catapulta con un’ironia dolorosa nel territorio scivoloso delle relazioni pericolose, offrendo un ritratto femminile d’oro a una Pilar Fogliati buffa, fragile e inquietante. Un thriller dei sentimenti al cinema con 01 Distribution. Perché ha deciso di passare alla regia? La sceneggiatura non le bastava più? No, assolutamente, scrivere per gli altri mi piace moltissimo e lo considero tuttora il mio primo lavoro. Questa è una storia che avevo buttato giù quando ero molto giovane e a un certo punto ho deciso di riscriverla. Quando scrivi per gli altri mantieni una forma di pudore, aspetti che il regista infondi una sua visione. Ed è quello che cercavo quando ho iniziato a farla leggere, ma tutti mi rispondevano che era una storia che dovevo dirigere io. Probabilmente era un tentativo gentile di declinare. Poi ho pensato: perché no? Solo che mancava qualcosa al film: me stessa... Sentivo che le domande poste dalla sceneggiatura erano ancora attuali, ma le risposte che mi ero data nella prima stesura erano diventate false, moralistiche e sempliciotte. All’epoca non sapevo ancora niente della vita, nella realtà tutto è molto più complicato e sfumato, così ho cercato di infondere nel nuovo copione punti di vista meno scontati sulle coppie e il tradimento. Siamo abituati al cinema americano che è molto moralista e dove il tradimento è sempre visto come la lapide di una relazione, invece ho provato a pensare che forse per una coppia che sta insieme da tanti anni, l’infedeltà può essere un’occasione di ripensarsi. La regista Riedinger: «I reality? Sono violenti ma ammiro le protagoniste. Il “male gaze” va decostruito» In un’epoca di trasparenza assoluta quanto è importante il segreto? Viviamo nel paradosso in cui, volendo, possiamo sapere tutto dell’altro, basta controllare i suoi dispositivi per scoprire i suoi spostamenti, le sue ricerche online, i suoi gusti o desideri. Ma il nucleo più intimo di una persona rimane un enigma per la persona stessa, quindi figuriamoci per chi gli sta accanto. Ogni tentativo di controllo dell’altro è votato al fallimento, perché in noi c’è sempre una parte di mistero che bisogna accettare ed è giusto che rimanga insondata. La monogamia è sana, asfissiante o destinata al fallimento? La monogamia per scelta è lodevole. L’importante è che non diventi la paura di uscire dal recinto che chiamiamo fedeltà. Credo che in ogni forma di amore ci sia il rischio di possesso e il tentativo di controllo dell’altro. Anche nel caso dei genitori verso i figli. L’importante è non delimitare la propria crescita in un rapporto che può diventare una gabbia. Il tradimento può portare alla scoperta dell’ignoto e quindi a una crescita, ma c’è bellezza anche nel coltivare e preservare il mistero di ciò che crediamo di conoscere. Insomma, non è detto che bruciare sia più romantico di durare. Il suo film è una storia d’amore con varie declinazioni, ma in fondo è la storia di quattro solitudini, giusto? Sì, i protagonisti sono come le formiche che si inseguono all’interno del formicaio che si vede nel film: si accodano all’altro, convinti che la “formica” davanti conosca la strada giusta. È come se avessero demandato la loro salvezza all’altro, come spesso succede nelle storie d’amore. Non c’è niente di peggio che sperare che sia l’altro a colmare le proprie mancanze. Quando riescono a interrompere questo circolo vizioso, che nel formicaio si chiama “spirale della morte”, capiscono che devono trovare la loro strada da soli. Qual è stata la prima immagine che le è venuta in mente quando ha iniziato a scrivere Breve storia d’amore? L’immagine di partenza è stata quella di una ragazza sola in un bar, in cui non c’entra niente, l’altra, questa stessa ragazza che irrompe come un graffio e con l’inganno, all’interno di un territorio sacro: lo studio di un analista junghiana. Si riconosce in queste donne? La ragazza e l’analista? Sì, rispecchiano due momenti della mia vita. Oggi mi trovo a metà strada tra loro due: forse sono nata come il personaggio di Lea (Pilar Fogliati) ma col tempo le mie certezze si affievoliscono, divento sempre più consapevole che siamo tutti destinati a quella condanna inesorabile che è la morte. Questa consapevolezza relativizza i piccoli errori della vita e conferma che il desiderio è il più grande antidoto alla morte. Alba Rohrwacher: «Mi chiedo: sei pronta a caricarti sulle spalle la responsabilità di Michela Murgia?» Perché è così complicato e raro raccontare le donne nel cinema italiano? Per anni siamo state abituate allo sguardo maschile, declinato in tutte le sue forme, e da consumatrice di letteratura e di film, ho talmente introiettato l’universo degli uomini da poterne scrivere naturalmente. Ancora oggi la percentuale di registe donne è ai minimi livelli. Per anni siamo stati abituati a una rappresentazione del femminile dicotomica: o santa o puttana. La mia protagonista è una femme fatale, anche se non sa impersonificare bene il suo personaggio. Seguiamo il suo punto di vista, capiamo le sue motivazioni e il dolore che la muove. È importante poter raccontare donne complicate, imperfette, sbagliate, anche stronze, e dare tutte le sfumature che concediamo ai personaggi maschili. Il suo film è anche un gioco di equilibri tra i generi: si passa dal thriller alla commedia romantica, al dramma, come se niente fosse. Da spettatrice, mi piacciono i film in cui entri pensando di trovarti in un territorio conosciuto e poi ti ritrovi da un’altra parte. Credo nell’arte dell’affabulazione, nella capacità di prendere per mano lo spettatore per poi depistarlo. La musica di Fabio Massimo Capogrosso è un altro elemento che mi ha aiutata a tenere in equilibrio le tre anime del film: la storia d’amore, il thriller psicologico e… l’ironia, che è fondamentale perché in fondo raccontiamo di persone del Primo mondo che non hanno problemi veri. Che bilancio di questa prima esperienza da regista? La rifarebbe? È stato un dono, un gioco meraviglioso fatto con grandissima serietà, pur mantenendo la consapevolezza che non stiamo salvando il mondo, stiamo facendo un film. La prima cosa è il rispetto per le persone, l’armonia e la collaborazione. Odio la dicitura “un film di”, il cinema è sempre un’opera collettiva e quindi sì, girerei un altro film, mi piacerebbe raccontare la fuga della famiglia reale dei Savoia l’8 settembre del 1943. Mouret e gli amori al cinema: «I personaggi non hanno genere»