“Perché in Italia non riusciamo a produrre il nostro House of Cards?”, si sentiva domandare spesso quando House of Cards era ancora una serie tv aspirazionale e ricevibile, prima di diventare una sicura prova della sociopatia reale di Kevin Spacey (se è così bravo a fare il bastardo in tv allora le accuse di molestie saranno vere, hanno pensato quelli che gli hanno distrutto la carriera prima di ogni giusto processo).

Forse non abbiamo il nostro Castello di carte perché Roma non è Washington DC, perché Elio Petri non è ancora risorto, o perché Paolo Sorrentino ha preferito girare la sua versione in Vaticano con The Young Pope.

O forse perché quando gli italiani al centro delle più incredibili ascese politiche degli ultimi anni decidono finalmente di raccontarci i retroscena e gli intrighi diventano o Mario Merola, come Rocco Casalino e le lacrime e infamità de Il Portavoce, o semplicemente si fingono morti, come fa Luigi Di Maio in questo suo Un amore chiamato politica (edizioni Piemme, come Casalino: è derby dell’avvincenza).

Non si finge morto in senso pirandelliano o come in certi thriller vendicativi: magari! Ma questa raccolta di memorie scritta a 35 anni è così esangue e anodina, così intimamente democristiana, che Luigi – già non gigante di carisma – pare l’ombra di sé stesso, o almeno uno splendido ottantenne che ha molto vissuto, ma che abiura ormai appagato tutte le imprese più matte per rivelarsi con orgoglio esattamente il tipo di personaggio che voleva smentire con queste pagine: un ragazzo senz’arte né parte venuto dal nulla del Sud più noioso e fuori mano («Non vengo dal nulla», ci dice infatti quasi subito: ok, boomer) che si ritrova nell’occhio dello Zeitgeist per fortuna o per tigna, e che fa di tutto per restarci rinnegando e rimuovendo, glissando e smentendo, e in generale cercando di sviare il lettore mandandolo in coma.

Lui la chiama maturità: a me, che vengo dagli stessi posti, ricorda generazioni di notabili e papaveri in qualche imperscrutabile modo “arrivati”, e lì rimasti per sempre, sopravvissuti a tutto e mai più rivisti senza una qualche forma di auto blu. Beato lui.

«Mira alla luna, anche se sbagli atterrerai tra le stelle», è scritto infatti in esergo: sarebbe un omaggio al Movimento e una frasetta motivazionale tipo “non arrenderti mai”. Ma quando qualcuno ti mostra chi è, tu credici, e per me significa “Buttati in politica coi primi che trovi, qualcosa si rimedia sempre”.

Sospirare

All’inizio di Un amore chiamato politica Luigi è stato appena eletto alla Camera dei Deputati, si guarda le scarpe e sospira (guardarsi le scarpe e sospirare sono le sue attività preferite: l’avevo detto che ha 80 anni).

Suo padre non gli ha neanche fatto i complimenti, ha detto solo “hai voluto la bicicletta, ora pedala”, ma almeno non lo mena mai come invece faceva sempre il padre di Casalino. Gigi non è sorpreso da quella reazione e non cerca una rivincita su quella freddezza.

Infatti ci informa subito che il padre è stato trombato per ben tre volte al consiglio comunale, pur essendo ammanicatissimo col centrodestra. E invece lui è già in pole grazie ai suoi padri intellettuali: i professori di liceo Vincenzo D’Onofrio e Antonio Cassese, che «si chiama ancora così» (dunque è ancora vivo, e non si è dato alla latitanza o al transgenderismo) e che «la politica l’ha sentita, l’ha odorata, toccata, schiaffeggiata, allontanata e riacciuffata» (senza appunto beccarsi nessuna malattia, che bravo).

Ma i due gli hanno soprattutto insegnato a non avere un approccio “radical chic” alla politica, nel senso di non pensare che la politica di ieri fosse meglio di quella di oggi, e in effetti questo non sarebbe un libro italiano se non contenesse una interpretazione immaginaria della famosa espressione di Tom Wolfe.

Per fortuna nella vita di Luigi non c’è alcun rischio di chic, radical o meno, perché presto si imbatte in Gianroberto Casaleggio alla trionfale chiusura dello Tsunami Tour: «Il più grande vaffa della storia politica italiana. Era una forma artistica e provocatoria, sia ben chiaro», ci informa l’autore, che forse ci crede ottantenni come lui e pensa che non ricordiamo più quei noti artisti pronti a spaccare tutto con la bava alla bocca, suoi elettori.

Casaleggio e Grillo

E Casaleggio, com’era Casaleggio? «Dolce», «di grande umanità», «mai cinico». Però poi quando lo fa parlare sembra un invasato di Scientology che vuole allontanare chi «contagia come un virus il Movimento», perché «la parte malata va amputata».

E Grillo, com’è Grillo? C'è un capitolo su di lui, che è grandissimo comunicatore, comico però anche visionario. Ma il capolavoro è la chiusa: «È una sorta di Jep Gambardella della Grande Bellezza: Beppe non ha solo il potere di organizzare e partecipare al Movimento. Ha il potere di farlo fallire».

Ora, Jep Gambardella è un uomo perduto e disperato, circondato da gente messa persino peggio di lui: speriamo che anche Grillo, come Di Maio, non abbia mai visto il film e conosca solo la frasetta sulle feste.

Ma lasciamo l’Elevato sulla terrazza romana con Serena Grandi: Luigi ha altro a cui pensare, ormai è vicepresidente della Camera e in pochissime pagine consuma due tradimenti epocali per raggiunta maturità istituzionale, o perché col cazzo che vuole tornare al paese da mammà senza auto blu: prima ammette che in politica non basta dire «uno vale uno», serve anzi provata competenza per governare, ché tanto ormai lui è già dentro e ha chiuso a tripla mandata.

Poi fa «pubblica ammenda»: la contro-informazione, linfa del Movimento, fa schifo e sparge veleno, e fu un errore mettere alla gogna i giornalisti più antipatizzanti. Addirittura, da vero ottantenne Dc che non ha mai sentito nominare i woke, omaggia Montanelli non sapendo che è più cancellato di Kevin Spacey.

La cultura del bibitaro

E finalmente arrivano le pochissime parti davvero interessanti, quelle sulla “cultura del bibitaro” e su Silvio Berlusconi, il primo a coniare l’infamante definizione: Di Maio è amareggiato, non per sé, visto che non ha mai venduto bibite ma era steward (dei “vip”, mi raccomando), ma perché Silvio ha offeso tutti i giovani che lavorano con umiltà.

Perché Berlu è «inchiodato alla poltrona»: non serve qui Freud per parlare di proiezione. Il Cavaliere torna nell’aneddoto dell’incontro agli studi televisivi, quando Di Maio non vuole parlarci perché teme di essere fotografato con l’odiato Caimano e che la foto venga usata contro di lui.

E invece quello voleva solo dirgli che lo trova «davvero bravo», perché ha capito benissimo che è il suo erede spirituale inchiodato alla poltrona – e infatti è pure editore di questo libro – e comunque sai che gliene frega a Silvio della photo opportunity con Giggino. Che è già più Silvio di PierSilvio, visto che qualche pagina più in là, messo in mezzo da Salvini e Renzi che come al solito lo vogliono fregare, ci informa che lui invece non è capace di sotterfugi perché non ha «quel manuale» («Io non ho il know-how per odiare», diceva Silvio negli anni d'oro).

Dopo averci rassicurato che oltre a non essere stato bibitaro non è neanche gay, che comunque non è certo un’offesa ma merita vibranti smentite perché non si farà screditare da un “pezzo deviato” della società, altra perla: il Decreto dignità, chiamato così su suggerimento di un cameriere che si lamentava con lui della poca dignità del suo contratto a tempo determinato, e pensa se invece gli avesse detto «Onorevole mi sono rotto i coglioni».

La sceneggiata sul balcone e la sconfitta della povertà vengono poi, va senza dire, ripudiate e «ora sono in pace con la coscienza». Beato lui.

Abbronzatura molto estiva

E che dire di Conte, che gli appare la prima volta con «un’abbronzatura forte, decisa, molto estiva» e che è così bravo che «non è che poi questo ci diventa un il Macron italiano?»: brani scritti chiaramente da Casalino, o copiaincollati dallo stesso disperato editor di Piemme.

Di Rocco qui si parla ben poco, se non per suggerire velatamente che sia stato lui a convincere Di Maio alla disastrosa mossa dell’impeachment a Mattarella, di cui il tenero Gigi si pente subito ma che Di Battista invece sostiene con forza.

“Per fortuna quei due gran signori di Cottarelli e del presidente accettano subito le mie tardive scuse, loro sì che sanno fare politica, non come quei due scappati di casa che fanno tanto gli amici e poi mi vogliono rovinare la carriera” (perifrasi mia, ma quello è il senso).

L’ultimo capitolo è ambientato nel 2050, quando un Di Maio persino più anziano di quello di oggi si gode la famiglia e il mare, e non sa cosa sia diventato se non «un uomo onesto». Beh, glielo diciamo noi: nel 2050 Giggino sarà diventato a forza di tigna presidente della Repubblica. Esatto, proprio come il suo vero padre spirituale Silvio Berlusconi. Beato lui. Beati loro.

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