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«Perché in Italia non riusciamo a produrre il nostro House of Cards?». Forse perché quando gli italiani al centro delle più incredibili ascese politiche degli ultimi anni decidono finalmente di raccontarci i retroscena e gli intrighi diventano Mario Merola o semplicemente si fingono morti, come fa Luigi Di Maio in questo suo Un amore chiamato politica.
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Com’era Casaleggio? «Dolce», «di grande umanità», «mai cinico». Però poi quando lo fa parlare sembra un invasato di Scientology che vuole allontanare chi «contagia come un virus il Movimento», perché «la parte malata va amputata».
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L’ultimo capitolo è ambientato nel 2050, quando un Di Maio persino più anziano di quello di oggi si gode la famiglia e il mare, e non sa cosa sia diventato se non «un uomo onesto». Beh, glielo diciamo noi: nel 2050 Giggino sarà diventato a forza di tigna presidente della Repubblica.
“Perché in Italia non riusciamo a produrre il nostro House of Cards?”, si sentiva domandare spesso quando House of Cards era ancora una serie tv aspirazionale e ricevibile, prima di diventare una sicura prova della sociopatia reale di Kevin Spacey (se è così bravo a fare il bastardo in tv allora le accuse di molestie saranno vere, hanno pensato quelli che gli hanno distrutto la carriera prima di ogni giusto processo). Forse non abbiamo il nostro Castello di carte perché Roma non è Washington



