Quel morso nessuno l’ha visto bene. A differenza della testata di Zidane, che una telecamera fortunata ha subito trasmesso in mondovisione, il celebre morso di Luis Suárez a Giorgio Chiellini durante il Mondiale 2014 fa parte di quei grandi eventi successi ma non visti: come l’aereo sul Pentagono o l’uccisione di Bin Laden. Il fatto, in sé, non si vede bene – centinaia di video, ma solo da lontano, di spalle – insoddisfacenti. Sono ben visibili però le conseguenze, le teatrali appariscenze del dopo: la vistosa ferita sulla spalla che Chiellini corre a ostentare sotto gli occhi dell’arbitro, come in una sacra rappresentazione, mentre nella confusione generale tutti iniziano lentamente a capire: l’ha morso. Non un calcio, non un virile pugno, non una gomitata o un’istintiva spinta, no: un morso. Alle spalle, alla traditora. Suárez se ne sta a terra, incapace di giustificare l’ingiustificabile, si tiene i denti con le mani nel disperato tentativo di far credere che non sia colpa sua, che sia stato una morsicatura incidentale. “Sono cose che succedono in campo”, dirà poi: “non dovremmo farne una cosa così grossa. Dopo un contatto ho perso l’equilibrio, il mio corpo è diventato instabile e sono caduto addosso al mio avversario con la faccia”.

Il morso resta fuori dal video, proprio come gli omicidi della tragedia greca, che venivano raccontati, sì, ma mai rappresentati: erano, tecnicamente, osceni. C’è qualcosa di osceno anche in quel morso, per cui nei giorni successivi sono stati scomodati psichiatri e antropologi, libido e fase orale, nel tentativo di capire l’incomprensibile: ovvero un atto totalmente, completamente irrazionale. Quello che rende celebre e spettacolare quel gesto è proprio la sua assurdità. Non c’è nessun vantaggio sportivo o personale in quel morso, nessuna furbizia, nessuna cattiveria; è un gesto completamente senza senso.

Forse è questa la ragione della sua oscenità. La cosa costa a Suárez nove giornate di squalifica, insieme a un’interdizione di quattro mesi da ogni attività sportiva. È la sanzione più drastica mai inflitta a un giocatore durante un Mondiale. Nasi rotti, caviglie spezzate, risse funamboliche, niente ha suscitato tanta severità quanto quel morso rubato, quel fugace insensato azzannamento di una spalla. Ogni buonsenso educativo lo conferma: l’oscenità va sempre punita, e in modo esemplare.

Da Montevideo a Barcellona

La straordinaria carriera di Luis Suárez è punteggiata da queste oscenità. Episodi difficili da commentare, talvolta di cattivo gusto; vicende da condannare rapidamente, senza se e senza ma. A quindici anni, pare che abbia dato una testata a un arbitro. Nel 2010, contro il Ghana, “para” con la mano un gol nella sua porta. Prima cerca – invano – di incolpare il compagno Fucile. Poi, espulso, esulta sguaiatamente dopo che il rigore viene sbagliato da Gyan. Il pubblico e i media trovano questa esultanza volgare e irrispettosa. Ha 23 anni e gioca nell’Ajax, ma iniziano già qui i tentativi di rieducazione del Selvaggio.

Non ci riusciranno mai: nella sua prima partita nel nuovo Liverpool di Coutinho e Sturridge – una partita ingloriosa contro una squadra inferiore, il Mansfield Town – segna con la mano, e tutto contento se la bacia pure. Nel 2011, il discusso episodio di razzismo con Patrice Evra del Manchester United: dicono si sia rifiutato di stringergli la mano (lui sostiene si trattasse di una trappola). Nel 2013, morde Branislav Ivanovic del Chelsea, sempre a una spalla. L’anno dopo, appunto, morde anche Chiellini. Solo nel suo periodo inglese, prende una ventina di cartellini gialli, quasi tutti per proteste e reazioni scomposte. L’allora primo ministro David Cameron lo indica come “il peggior esempio possibile”. Nondimeno. Quando nel 2014 Suárez passerà al Barcellona, l’allenatore Luis Enrique lo presenterà così ai nuovi compagni: “Siamo contenti: l’hanno finalmente lasciato uscire da Guantanamo per essere con noi qui oggi ad allenarsi”.

Riscatto sociale

La storia di Suárez è una di quelle ormai classiche storie di riscatto sociale. Emigrato a Montevideo dalla campagna insieme ai genitori e sei fratelli; famiglia povera, di una povertà drammatica e non letteraria. Cresciuto nel quartiere Comércial, nei pressi del carcere femminile di Cabildo. Fra le molte squadre della città, inizia nell’Urreta: la squadra dove giocavano “i figli di quelli coi soldi”. “Per questo ce l’ho portato”, ha detto sua madre. Si dibatte per qualche anno come stella minore del calcio uruguaiano finché non viene acquistato da un club olandese, il Groningen. Ci rimane un anno, dove fa in tempo a farsi detestare dai tifosi per i suoi maleducati atteggiamenti.

L’anno dopo è all’Ajax, ed è la sua primavera: 49 gol in 48 partite, una media mostruosa. “Gli olandesi”, dichiarerà quasi con stupore nella sua autobiografia, “non litigano mai quando parlano di calcio: discutono, argomentano”. Sembra una storia di bassa pedagogia colonialista, una di quelle favole che sarebbero piaciuta a Rousseau: il sudamericano tutto matto che arriva in Europa e apprende, elevandosi, i lumi del raziocinio. Suárez però non vuole apprendere un bel niente.

Le sue “cadute” non interrompono una carriera straordinaria ed esponenziale, culminata in quel Barcellona di Luis Enrique, diventato – anche grazie a lui – una tra le squadre più forti della storia del calcio. Due volte vincitore della Scarpa d’Oro, è stato ed è tuttora uno fra i migliori attaccanti del calcio mondiale. Da qualche giorno si è trasferito all’Atletico Madrid di Diego Simeone: e non è detto che, a trentatré anni, non continui a stupire.

Un regolare irregolare

Di Suárez qualcuno potrebbe dire, con leggerezza, che è un uomo “di eccessi”. Uno sregolato. Invece no. Di comunemente sregolato Suárez non ha nulla: niente serate faraoniche, notti in discoteca, macchine distrutte, sciarade notturne. Ha un grosso tatuaggio di cui dice di essersi pentito. Nessuno dei cliché del “venuto dal niente” gli appartiene: non l’irridente buffoneria di un Cassano, la messianica arroganza di un Ibrahimovic, l’autodistruttività di un Adriano. Persino sul piano sentimentale, è un abitudinario: sua moglie Sofia, madre dei suoi figli, è la stessa fidanzata che aveva a Montevideo a quattordici anni, e da cui dovette separarsi in lacrime quando, dopo un solo anno, lei dovette trasferirsi a Barcellona. Sì, proprio a Barcellona, dove lui l’avrebbe raggiunta, coronato dal successo, diversi anni dopo. Se Suárez non fosse così impoetico, ci sarebbero tutti gli estremi per una favola.

Cosa lo rende osceno

Le colpe di Suárez non sono affascinanti e non destano invidia, sono facili da esecrare. Quello che di lui è così facile condannare – senza neanche rendersene conto – è la sua radicale sincerità. Ecco cosa lo rende osceno. Non una sincerità verbale, non il solito parodistico dice sempre quello che pensa: la sincerità di Suárez è preverbale, pre-intellettuale. Una totale assenza di pose, nessun nascondimento del personaggio: un’immediatezza nell’essere quel che è che infastidisce, perché ci fa intravedere, anche in noi, l’animale che siamo (e di cui abbiamo nostalgia).

La sua condotta è l’espressione di un io quasi totalmente privo di mediazione intellettuale, di freni inibitori, di vorrei-ma-non-posso. Non ha Super-Io, non ha calcolo del contesto. Guardando Suárez ci viene il sospetto che giusto e sbagliato non siano valori assoluti, ma mere costruzioni culturali. È sempre al di qua del bene e del male: non ne distingue la differenza se non in relazione al divieto che la presiede. Esistono le regole perché esistono le punizioni. Suárez sbaglia ma poi chiede scusa. Ed è convinto che possa bastare. Ma non basta, non basta mai: tutti continuano a volerlo rieducare. Il mito del Buon Selvaggio è duro a morire. I media continuano a cercare di mettergli gli occhi sugli errori passati. “Credi di avere qualcosa che non va?”, gli chiede un giornalista nel 2014. “Non so cosa risponderti”, gli risponde. Il Cannibale (è così che lo chiamano) vede solo il qui e ora.

L’osceno infatti non ha alcuna spiegazione. Oscena è l’assurdità dei morsi a Ivanov e Chiellini, ma osceno è anche il pianto disperato dopo il 3-3 col Crystal Palace che costò al suo Liverpool una vittoria della Premier League che era lì, a un passo. Piange, e riesce solo a coprirsi il volto con la maglia. Piangere come mordere: pulsione primario, vero desiderio. Come i bambini: un impulso senza mediazioni: volgare, pericoloso, ingestibile. Che si tratti del desiderio di mordere o di piangere: erompe. Eccolo lì, Luis Suárez: un milionario che, ribaltato lo schema di classe, risalita sino al vertice la piramide alimentare, entra nell’Università di Perugia in maglietta e zainetto, come uno studentaccio lavativo a cui nemmeno sa di assomigliare. Un episodio checcozaloniano, certo, ma in fondo non poteva che essere così: l’osceno che la tragedia lascia fuori, diventa sempre oggetto di commedia.

© Riproduzione riservata