Cultura

L’unica “cancel culture” che esiste è quella che non vi raccontano

  • Volendo tentare una definizione più verosimile, la cancel culture si potrebbe descrivere come una tendenza (molto varia e poco organizzata) a rivalutare il passato con un’applicazione rigida di lenti etiche della contemporaneità occidentale.
  • Ma non se ne parla quasi mai in questi termini. Di solito, anzi, l’espressione cancel culture fa da vestibolo alla grande sala da ballo della propaganda.
  • In realtà la cancel culture, quella vera, è l’inevitabile sottoprodotto di una società che comunica su piattaforme digitali costruite appositamente per stimolare i comportamenti aggressivi e dare briglia sciolta all’istinto del gregge, alle logiche ricattatorie dell’influencer marketing e alla divisione rituale della società in compartimenti stagni.

Cancel culture? Macché: cultural lag. I nemici giurati degli anglicismi non ce ne vogliano, ma buona parte del fastidioso rumore di fondo che funesta il discorso pubblico di quest’epoca è racchiudibile in queste due espressioni. La seconda si deve al sociologo statunitense William Fielding Ogburn, autore di Social Change: With Respect to Culture and Original Nature, il testo in cui nel 1922 la utilizzò per descrivere un mondo rivoluzionato con grande velocità (oh William, se sapessi!), define

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