Il cinema all’aperto a Campo di Marte

Il cinema estivo nell’arena di Campo di Marte, in zona stadio, è un’oasi di lentezza nella stagione più lenta dell’anno. Ci arrivate per tempo, molto prima chne il film cominci, quando non è ancora buio. Parcheggiate senza problemi la macchina – è il 28 luglio, a Firenze, fuori dal centro! – o la bicicletta: le rastrelliere non mancano, non mancano i cancelli, siete ragionevolmente certi che la ritroverete tra due ore.

Non fate coda (è il 28 luglio, a Firenze), date cinque euro al cassiere o alla cassiera, che in cambio vi dà il programma di tutti i cinema estivi della città. Ringraziate. Approfittando dell’atmosfera rilassata può anche darsi che proviate a scambiare due parole col cassiere o con la cassiera, una cosa che durante l’anno, nei cinema normali, non fareste mai. Ma è il 28 luglio: quale distanza sociale può reggere a questa canicola, a questo generale rilassamento? Poi fate quello che avete fatto tutte le volte che siete stati al cinema all’aperto: aprite il programma e scorrete col pollice l’elenco dei film che danno agli Uffizi, a San Frediano, al Poggetto.

Potreste essere venuti da soli: al cinema all’aperto ci si va anche da soli, non ci si sente troppo in colpa se gli altri ci guardano. Ma se siete accompagnati dichiarerete alla o alle persone che vi stanno accanto le vostre intenzioni, sciorinerete la lista: siete fermamente decisi a vedere il film X, forse anche il film Y, mentre il film Z l’avete già visto.

Qualcuno dei vostri accompagnatori è d’accordo, qualcuno eccepisce. Non importa, perché è solo una conversazione di facciata, un modo per riempire lo spazio-tempo che c’è tra la cassa e lo schermo. I piani estivi sono fatti per essere disattesi, e del resto prima ancora di uscire dal cinema avrete perso il programma: la prossima volta ripeterete la scena. Raggiunto il luogo della proiezione, vi guardate intorno. Una volta su due c’è, tra gli spettatori, qualcuno che conoscete di vista. No, non importa raggiungerlo, gli fate un cenno, lo ritroverete al bar, nell’intervallo.

Facciamo l’ipotesi che ora vi dicessero che il film non verrà proiettato e che dovete tornare a casa: sarebbero comunque cinque euro ben spesi, sarebbe comunque già un pezzetto di bella serata. Ma le luci si spengono, il chiaro dello schermo combatte ancora per qualche secondo col chiaro del post-crepuscolo, il film comincia.

Quale film? Non è che la cosa sia irrilevante. Ma è meno rilevante che nel cinema al chiuso. Al cinema all’aperto i capolavori restano capolavori, ma i film brutti diventano così così, e i film così così diventano buoni, diventano almeno godibili. Al cinema all’aperto si va in maglietta e infradito, l’ambiente è dimesso quando non proprio decadente, ed è comprensibile che questa atmosfera familiare stinga anche sulle aspettative degli spettatori: abbiamo pagato solo cinque euro, siamo usciti di casa praticamente in ciabatte, finiamo per essere indulgenti anche col regista e con gli attori che traccheggiano sullo schermo.

Siamo più indulgenti persino col proiezionista, che una volta su tre fa partire il film fuori fuoco, o senza sonoro. Salvo che il film non diventi davvero inguardabile, nessuno si lamenta. Se qualcuno lo fa, gli altri spettatori approvano silenziosamente il lamento, la protesta, ma pensano anche che dopotutto è il 28 luglio e siamo al cinema all’aperto, e che nel cinema all’aperto quello che conta è l’aperto, non il cinema.

È un paradiso, ma un paradiso fatto dagli uomini, per cui è normale che ci sia la magagna. Le sedie del cinema all’aperto sono delle trappole di plastica come quelle che si trovano nelle sale d’attesa delle stazioni ferroviarie dei paesini: è come stare seduti per due ore su un frisbee. Si inizia composti, poi a mano a mano che passano i minuti la schiena, il sedere e le gambe cominciano a ribellarsi; ci si agita, si sperimentano posture alternative: appoggiati su un fianco, sprofondati sulla sedia coi piedi sullo schienale di fronte (l’esperto di cinema all’aperto sa quanto è importante avere di fronte a sé una fila vuota), protesi in avanti con la schiena a quarantacinque gradi, nella posizione del cane. L’intervallo arriva come una liberazione.

I dieci minuti dell’intervallo si devono trascorrere per metà nell’acquisto e nel consumo di un ghiacciolo del costo di un euro e per metà nell’ascolto delle conversazioni circostanti, che a loro volta si dividono, metà a proposito del caldo e metà sulle vacanze fatte o da fare. Sono temi interclassisti, interculturali. Ne parla sia il pubblico di Lars Von Trier sia il pubblico di Benvenuti al sud. Spesso è lo stesso pubblico. Se siete accompagnati, anche voi dite sommessamente la vostra. Se siete soli, sorridete tra voi della banalità delle conversazioni che si fanno al cinema all’aperto.

E non ho detto niente delle volte in cui a metà film il cielo minaccia pioggia, o piove davvero e il film viene sospeso, ma poi ricomincia e la proiezione finisce per durare tre, quattro ore, e l’atmosfera in platea si fa quasi affettuosa, perché ci si sente tutti quanti un po’ reduci. Alla fine, si resiste a stento alla tentazione di scambiarsi gli indirizzi. In una sera d’estate in città, non c’è forse piacere più puro.

Gelati

Si sa che nel settore della ristorazione c’è oggi – intorno al cibo in sé, a come si mangia, a come si serve, a come se ne parla – una retorica, una mistica, una proliferazione di discorso giornalistico-televisivo tale che uno si sazia prima ancora di aver mangiato, e si nausea pure, se ha conservato un po’ di senso della misura. Perché in fondo, per quanto la si faccia complicata, è solo cibo. Ora, i gelati e le gelaterie sono cose più semplici di una cena chez Ducasse, ma un po’ di questa retorica ha finito per depositarsi anche su di loro.

L’estenuante lentezza dei gelatai di Grom, che mescolano e rimescolano e ci mettono cinque minuti per fare un cono, perché «così il gelato ritrova la sua giusta densità», è retorica. I nomi lambiccati dei gusti – La crema al doppio tuorlo come la faceva la nonna, Il pistacchio di Bronte tostato a mano – sono retorica. Le minidosi e i maxiprezzi del famoso gelataio del centro sono retorica. Non che non siano gelati buonissimi, ma per i miei gusti (o per la mia nevrosi) tra il momento della richiesta e il momento della prima leccata al cono passa troppo tempo, o mi si chiede di prendere parte a una recita troppo elaborata, mentre io volevo solo un cono fragola e limone: come si dice di certi film porno, c’è troppa trama.

Alla Gelateria dei Neri in via dei Neri invece è tutto deliziosamente sobrio: locale piccolo, non particolarmente elegante. In vetrina ci sono i dolci, ma non i dolci sontuosi delle pasticcerie del centro: qualche profiterole, qualche torta semplice semplice, d’estate le sorbettiere con le granite. Di fatto, non è veramente una vetrina ma il retrobottega, due passi più in là s’intravede un lavandino, una cassettiera coi cassettini siglati da lettere, un enorme barattolo di Nutella. Alla Gelateria dei Neri è sobrio persino il cattivo gusto: lo schermo tv appollaiato in fondo al locale è di formato medio-piccolo, non uno di quei megaschermi sfacciati che si trovano in tanti locali del centro, e il volume è quasi sempre al minimo. Ai muri, dentro cornicette a giorno, sono appese le foto delle vacanze, come usa nei bar di quartiere, e sopra le sorbettiere si allinea una panoplia di piccoli oggetti inutili: bicchieri di varie fogge, alambicchi, carillon, trenini da uovo di Pasqua; mancano le bambole, poi la camera della nonna è completa.

Gli esseri umani, dietro il bancone, si adeguano agli oggetti, e sono corretti ma non complimentosi. «Assaggi un po’ questo, poi mi saprà dire» è una frase che proprio non potrebbero pronunciare. E non sono lenti, ma non hanno neppure quella fretta da cassa del supermercato che è sempre così urtante trovare in chi gestisce un negozio. La vaschetta del gelato viene sigillata col nastro adesivo, poi lentamente, con la spugna, si tolgono eventuali residui di gelato, poi si riempie un sacchettino coi biscottini-omaggio; l’idea di prepararli prima, i sacchettini, non è venuta a nessuno o è stata scartata, e anche questo non mi dispiace: la placida scelta dei biscottini, la pinzatura del sacchettino, la concessione di una busta di plastica, «perché sono in bicicletta».

E usciti dalla Gelateria dei Neri, per lo spazio di una decina di metri, si potrebbe anche non essere a Firenze; si potrebbe essere nel centro storico di una qualsiasi città del centro-nord, magari Torino. Perché via dei Neri fa un paio di curve, che è quanto basta per non vedere niente che individui Firenze: nessuno scorcio con, sullo sfondo, la torre di palazzo Vecchio o Santa Croce o la biblioteca nazionale, o la fila dei turisti davanti a un celebre spacciatore di panini al prosciutto; e nessuno indovinerebbe che a cinquanta metri in linea d’aria scorre l’Arno. Resistono persino un po’ di negozi veri – non quelle finzioni per turisti che sono sparpagliate per la città – con anche delle belle insegne di fine Novecento: l’ottima Gastronomia Giuliano, il negozio di vinili Data Records, una rivendita di materiale elettrico. E girando nel vicolo sulla destra c’è un negozietto di cinesi dove non entra mai nessuno: sul marciapiedi, un bambino anche lui cinese fa un suo gioco inintelligibile e m’ignora, olimpico, quando io mi fermo a guardarlo intenerito – ma per posa, eh – col gelato in mano.

L’Erta Canina

La gita a piazzale Michelangelo è delicata, perché la spianata di asfalto può essere sgradevole, soprattutto se fa caldo e ci sono troppi turisti, come accade sei-sette mesi all’anno. Quindi si potrebbe anche non fare, evitare il passaggio dal piazzale, evitare soprattutto la sosta. Ma salire la collina bisogna, perché la vista sulla città e bellissima e perché la collina stessa, in sé, è meravigliosa: spalle al piazzale, si possono fare duecento passi verso l’abbazia di San Miniato, visitarla, perdersi nel magnifico cimitero delle Porte Sante che si apre dietro la basilica.

E poi si può continuare dando sempre le spalle alla città: andare verso Pian dei Giullari, verso Monteripaldi: è incredibile quanto quella che si chiama aperta campagna sia vicina al centro di Firenze. I turisti arrivano a piazzale Michelangelo in macchina, salendo dal viale che parte da Ponte a San Niccolò; oppure arrivano a piedi facendo la scalinata che inizia all’incrocio tra via dei Bastioni e via del Monte alle Croci; a tre quarti di scalinata, si sa, c’è il Giardino delle Rose, che invece merita una sosta di mezz’oretta. Ma per scendere, per rientrare in città, se siete a piedi, fate l’Erta Canina.

Il nome Erta Canina rispecchia la cosa: una salita da cani, tanto è ripida (erta, appunto). Ma il segreto è farla in discesa. La imboccate a circa trecento metri da Piazzale Michelangelo, girando a destra. All’inizio più che una strada sembra un cortile, anche perché, ripida com’è, qualche virtuoso è comunque riuscito a parcheggiarci la macchina, qualcuno è addirittura riuscito a girare la macchina in questa specie di imbuto verticale.

Avanzate, scendete, passate davanti a ville che hanno il nome delle famiglie che le possedevano o le posseggono: Buonamici, Funaioli, Brachi, Pianigiani, Malchiori. Delle ville vedete solo i muri e i cancelli; ma sporgendovi un pochino potete indovinare il panorama sulla città che godono quei privilegiati. Così ne scrive Giulio Lensi Orlandi Cardini (Ville di Firenze): «Si susseguono una dopo l’altra casette dall’aspetto modesto, ma ognuna, da una finestra, da una loggia, da una vetrata vede uno spettacolo stupendo; esse costituivano eccezionali dimore che, vicinissime alla città, godono i vantaggi della campagna».

Modeste forse ai tempi di Giulio Lensi Orlandi Cardini: perché intanto la scienza delle costruzioni, del restauro, della coibentazione, insomma l’architettura ha fatto passi da gigante; e si sono anche moltiplicati i locatari e i turisti internazionali, e il loro bonifici, ed è arrivato il bonus facciate. Così col tempo il modesto è diventato lussuoso, ma un lussuoso discreto, virtuoso, con ancora addosso l’antico sentore della campagna.

Scendendo ancora il panorama si allarga, finiscono le case, cominciano gli ulivi. Vecchie iscrizioni confortano il viandante che s’immagina andare in salita. Sotto un tabernacolo con un’immagine della Sacra Famiglia si leggono questi due endecasillabi: «O figlio, o sposo, o santa genitrice,/ al passeggier la via date felice». Al numero 29, una targhetta reca invece questa scritta d’incoraggiamento: «RIPOSO. Dalla porta a San Miniato/ per l’Erta Canina /braccia 900/ ossia un quarto di miglio» – perché un tempo, prima che venisse costruito il viale dei colli, l’Erta Canina arrivava fino all’abbazia di San Miniato, che da quel punto dista un quarto di miglio.

Proseguite, superate i due paletti di ferro che impediscono l’accesso alle automobili, girate a destra, eccovi di nuovo in città. La discesa è durata in tutto cinque minuti, ma – specie se l’avete fatta verso l’alba, o al tramonto – sono minuti che non dimenticherete.

La casa del popolo a San Salvi

L’Italia tra il Po e il Tevere è diversa dall’Italia settentrionale tra l’altro perché nell’Italia tra il Po e il Tevere ci sono ancora le case del popolo. Nelle città del nord che conosco non me ne viene in mente neanche una. Forse c’erano, forse ce n’è ancora qualcuna da qualche parte, in qualche cortile, ma io non ne ho mai viste. Forse si chiamano “circoli Arci”, ma è un’altra cosa.

A Firenze ce ne sono almeno un paio in pieno centro, nelle vie della movida, e uno si domanda che cosa possono pensare, di un posto così, i teen-ager americani in infradito che svernano in città. Ci passano per un bicchiere di spuma prima di fracassarsi al Tenax? I più raffinati lo usano come ironico meeting point alternativo allo Hard Rock Cafè?

Meglio non perdere tempo a verificare, meglio allontanarsi dal centro, perdersi nei quartieri.

Fino a qualche tempo fa fuori dalla Casa del Popolo “Andrea del Sarto” stava ancora appeso il cerchio giallo con la cornetta nera al centro, per dire che dentro c’era un telefono pubblico. È un ricordo di quand’ero bambino, il relitto urbano di un’altra età, chissà cosa viene in mente ai ragazzini di oggi quando lo vedono. Nella tavola calda all’interno si mangiava primo secondo contorno e dolce con quindici euro.

Poi si prendeva il caffè al bancone del bar, con un orecchio al brusio della gente all’ingresso e l’altro al brusio della tv nella saletta a fianco. Poi la strada si biforcava: da una parte si andava verso la sala della tombola, dall’altra verso i biliardi.

La sala della tombola erano in realtà due sale distinte, una per i non fumatori e una più piccola, una specie di recinto in plexiglass, per i fumatori. L’ultima volta che ci sono entrato, la signora all’ingresso ha lasciato il romanzo di Sidney Sheldon che stava leggendo e mi ha messo davanti tre cartelle, ma prima mi ha avvertito: «Io glielo dico subito, qui dentro ci fa un diaccio...».

Tavoli e sedie erano di plastica viola e blu, plastica dura, solida, buona a sopportare le manate di una clientela matura ma ancora energica. Da un pulpito di compensato, il ragazzo delegato alla tombolata leggeva ad alta voce i numeri e faceva qualche breve commento col tono giusto: né troppo dimesso, come se stare lì in mezzo fosse una pena, né troppo entusiasta, come se dovesse vendere qualcosa a qualcuno. Un tono medio professionale. Ogni tanto ripeteva qualche numero per i duri d’orecchie, ogni tanto si fermava e verificava che tutti i giocatori tenessero il passo.

La sala biliardi era un camerone di 6+6+6 tavoli da biliardo sovrastati da un’impalcatura che ricordava, in scala, quelle che si vedono nei porti per lo scarico dei container: serviva a reggere i segnapunti. La sera, la sala era quasi sempre piena. Rari gli adolescenti; rarissime le femmine. A due a due o a quattro a quattro, attorno ai tavoli se ne stavano pensosi, con o senza la stecca, degli individui maschi di età compresa fra i trenta e i settant’anni la cui principale occupazione, tra un colpo e l’altro, consisteva nel fare silenzio.

Quando andavo a giocare a biliardo li guardavo uno per uno, tutti così sgraziati e ineleganti, con le loro pance, le loro calvizie terminali, i loro nasi ingrossati dal vino e dall’età, i loro panciotti color vomito fosforescente – e tutti così incommensurabilmente più bravi di me. Al fondo c’era anche una tribunetta per gli habitué: se il mio tavolo era nella prima fila succedeva che all’inizio ci guardavano giocare, me e i miei amici; ma dopo qualche tiro smettevano di guardare.

Un cartello appeso al muro diceva che qualcuno dava lezioni di biliardo «al solo prezzo del tavolo», cioè non voleva soldi per la lezione, non voleva guadagnarci, gli bastava che l’allievo pagasse i cinque-sei euro del tavolo, magari una birra, e i consigli erano gratis. Una volta ho osservato il mio amico Lorenzo prendere una di queste lezioni gratuite da un giocatore anziano, avrà avuto tre-quattro anni più di noi, e il silenzio, la concentrazione, la gentile fermezza con cui il vecchio giocatore diceva «ma no, tu non è che ogni volta devi stare lì a fare i calcoli», quella che insomma si chiama l’atmosfera era così caldamente umana che mi si sono inumiditi gli occhi.

Nell’atrio d’ingresso la conversazione verteva di solito sul campionato di calcio, io captavo qualche frase mentre passavo e ripassavo davanti ai crocchi. «Si vende una punta dopo che s’è comprato un’altra punta, no prima. Altrimenti come s’arriva in porta, eh? Eh?». Il vecchietto che pronunciava pacatamente questa frase aveva l’aria talmente saggia che mi sono chiesto se dentro non ci fosse un qualche senso allegorico applicabile a me, alla mia vita. E alla fine, pensandoci bene, mi sono risposto di sì.

(Hélas! Come dice il poeta, «la forma di una città cambia più velocemente del cuore di un mortale»: la Casa del Popolo «Andrea del Sarto» ha chiuso i battenti. Ma se vi capita andateci lo stesso, guardatelo da fuori, respirate un po’ di questa vecchia Firenze operaia; poi da Via Manara raggiungete il parco di San Salvi, dove una volta c’era il manicomio, ora l’Asl, e dove nessun turista penetra perché è troppo lontano dal centro, ma che è bellissimo nella sua decadenza, come quasi tutto in questa città).

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