Come non notare quello che sta succedendo alle maglie da calcio?

Per un secolo sono state roba professionale, poi piano piano dalla fine degli anni Sessanta abbigliamento inevitabile dei tifosi più hardcore, per poi franare dagli Ottanta in poi su bambini e signore matte da curva sud, o nord. I bambini le portavano o meglio le alternavano alle maglie dei campetti oratoriali di scuola calcio, quando avevano finito il turno, o pretendevano di metterle in casa, o in rare uscite nel quartiere. Bei tempi.

La rivoluzione

Il cambio come sempre è partito da Londra e dalle altre città inglesi. Già secoli fa l’Arsenal o il Manchester United, per dirne due, pompavano magliette e sciarpe come gadget turistici. Ma bisogna andare dentro i pub per capirci qualcosa, dove ragazzotti (blokes, si traduce, più o meno) le usavano come abbigliamento quotidiano in modo esponenziale dagli anni Ottanta in poi – come segno di orgoglio, proletariato, e tante birre ingollate – mentre tenevano gli occhi invetrati sulle tv che facevano vedere anche l’Nba. Che nel frattempo, quanto a merchandising e uso “pubblico” del brand aveva già battuto tutti, singole grandi squadre di basket incluse (pensiamo ai Lakers e mille altri).

Una breve occhiata al decoroso Air su Netflix potrebbe aiutare a capire gli ulteriori meccanismi che all’interno di Nike portarono al delirio delle scarpe firmate da Michael Jordan e mille altri accessori della sua linea, che è durata eccome, e in modo trionfale e crescente.

Perché è principalmente alla stessa Nike e ad Adidas che si deve la trasformazione – anche tecnica – della tenuta ufficiale di tutte le squadre rilevanti del pianeta attraverso momenti sacrali durante ogni stagione che sono simili ormai alla cerimonia delle lacrime di San Gennaro, e al cui confronto l’attesa per gli ormai canonizzati keynote settembrini di Steve Jobs fa ridere i polli.

E così giù di ricerca su tessuti neoprenici e biotech per non perdere un millimetro di attrito e sudore, pattern pazzeschi e iperintelligenti, mix di colori da perdere la testa.

Il target

La cosa si è notata parecchio sui campi e si è notata nella straordinaria expertise delle direzioni di marketing nelle singole squadre, con la crescita spaziale delle stesse, l’ingresso di fondi internazionali, e poi dei panzer sauditi e qatarini (come prova, ben ultimo, il caso Mancini di questa settimana). Il bersaglio principale sono i nuovi consumatori del Primo Mondo dagli 8-9 ai 12 anni, quei preadolescenti tutti mutati e indecifrabili, ma solo per noi visto che si tratta di uno dei più ricchi mercati disponibili, grazie ad una generazione di genitori possidenti (e non) sfiniti da martellamenti che possono durare mesi e mesi.

Ci si deve arrendere, si fa prima, di fronte alle release puntuali e terribili della prima versione della nuova maglia della propria squadra, poi alla seconda ondata e infine (in questi giorni) alla terza.

Si tratta di capolavori, sia chiaro, venduti a prezzi pazzeschi: intorno ad un centinaio di euro per la maglia base. La terza maglia della stagione della Juventus – tra le primissime società calcistiche in Italia a spingere sul settore – è per esempio follemente grigia, perché «tributo alla tradizione industriale della città» (e quindi ai fumi delle fabbriche? Al suo sterminio oncologico? Boh). Ovviamente la costruzione in corso di stadi ad hoc per singolo team non fanno che confermare l’ovvio direzionamento del vecchio calcio verso l’elitarismo e la protezione.

Per fortuna la capacità di fare fake diffusissima – non parliamo di Napoli nei giorni di fine maggio dello scudetto – salva il popolo (di tutto il mondo).

Ma l’occhio ragazzino è troppo allenato per non riconoscere al volo il tradimento. Basta sfiorare la mano sul tessuto, notare la mancanza di grafismi a rilievo o tecno-optical che suggellano i paramenti originali.

Stupenda in tal senso la descrizione della terza maglia del Milan di quest’anno, firmata dal terzo player del settore, Puma, e pensata per supportare la diversity: «Un’esclusiva combinazione di colori ravish, fizzy lime, white, royal sapphire e majestic purple».

Blokecore

Fermiamoci un secondo. Perché – ruotando l’asse – è il caso di arrendersi a ciò che vediamo sulle strade delle grandi città e non: un grande numero di ragazzine e ragazze che indossano maglie di calcio di svariate epoche e provenienze. L’avete notato tutti negli due anni, cercate di metterlo a fuoco. Prima lo pensavamo parte della solita declinazione di scomparsa dei generi che abbiamo salutato con gioia e sollievo. No.

Il fenomeno è ben più largo ed è ormai salito fino alle peggiori creator. E gli si è dato un nome: blokecore (vedi sopra), ragazze che si permettono con estrema tranquillità di invadere il terreno dei maschietti trasformando feticci da brufolosi in bombe inaspettatamente sexy.

Ad essere sinceri, ci furono precursori nel mondo fashion (l’incredibilmente bravo e leggendario stylist degli anni Ottanta, Ray Petri, su tutti), e nelle frange musicali hiphop degli ultimi 50 anni, ben passati ai raggi X da Alberto Piccinini su queste pagine, incluso in qualche modo il Pharell Williams che ha puntualmente piazzato shirt calcistiche da paura nella sua prima collezione per Louis Vuitton lo scorso giugno.

Per non parlare di uscite meravigliose nella quotidianità lesbica e queer più in generale. E della bellissima crescita del calcio femminile con un campionato mondiale molto seguito qualche settimane fa (infatti le divise Adidas dei team di Giappone e Jamaica erano meravigliose). Ma qui stiamo parlando di un fenomeno molto diffuso, percepibile guardando solo i muretti di mezza Italia, e ovviamente tiktoccatissimo (da lì nasce il nomignolo).

A differenza dei babbei da seconde e terze maglie, le girls preferiscono l’usato, o la maglia vecchia del fratello, in una non troppo pensata attitudine alla circolarità che le rende ancora più impeccabili, ben distante anche dal collezionismo vintage tutto ossessivo dei maschietti. La freccia che dovrebbe colpire il bersaglio/target – controtattica che accade nei migliori fenomeni di street style da sempre – viene afferrata al volo e riscagliata al cuore delle sport corporation fino a buttarle perlomeno in confusione. Ma le conosciamo, son bestiacce dalla pelle dura. Tra poco sapranno come mettere a profitto pure questo fenomeno dal basso, senza averlo nemmeno meritato. Intanto, finché dura dal basso, blokecore forever.

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