Quando siamo piccoli, non c’è adulto che non ci ripeta: non si dicono le bugie, di’ la verità. Di’ sempre la verità. La verità vince sempre – ce lo insegnano i nostri genitori, i maestri a scuola, le favole che le leggiamo, i cartoni animati e i film che guardiamo, ce lo ripetiamo tra noi, piccoli ma molto saggi: non si dicono le bugie, la verità vince. Chi ha avuto un’educazione cattolica l’ha sentito ancora di più: dire le bugie è peccato, se dici una bugia ti devi confessare. Dio ti vede sempre, Gesù piange se dici le bugie. E tu ti senti investito da questo sguardo onnipotente da cui non puoi nasconderti, e dal senso di colpa incontenibile di far piangere Gesù. Per cui, visto che lo insegnano la mamma, il papà, i nonni, le maestre, le suore e il prete, i film, i libri e poi anche i bambini l’uno all’altro, con le faccette serie, finisci per crederci. La verità vince sempre. Di’ sempre la verità. E allora la dici.

Ma che succede quando dici la verità? Quando la dici a chi non ami, chi conosci per lavoro, per esempio, o ai conoscenti. Ma soprattutto quando la dici a chi ami. Quando dici la verità, quando ti mostri per quello che sei, a coloro che ami. O che devi amare. Che succede, allora?

Succede uno schianto e un botto, e un bagliore come un’onda d’urto, tutto si sgretola e non torna mai più indietro. Di’ la verità – quante volte, in Lacci, le donne lo chiedono a Aldo, di’ la verità. Ma una volta che dici la verità, poi, come la sostieni? Quante mani ti servono, quante braccia ti servono, quante gambe, quanti piedi, quanti occhi ti servono per difendere te e i tuoi cari dal grattacielo delle vostre vite che vi crolla tutto in un colpo addosso? Non dire la verità, Aldo, gli direi se potessi entrare in Lacci. Che nessuno dica mai la verità. Che nessuno parli. Ogni volta che qualcuno parla, è una potenziale rovina.

Questo però è una specie di flashforward, un balzo in avanti. Torno indietro e ricomincio dall’inizio. Oppure questo è il presente e allora, tornando indietro, vi racconto quello che è successo prima, vi racconto un flashback.

Perché così fa Lacci. Salta avanti e indietro, si riallaccia a un’immagine del presente, o del passato prossimo, per fare un tuffo nel passato più lontano, e raccontarne un’altra faccia, un altro tassello, un’altra sensazione, un’altra verità che, la prima volta, non avevi visto. Cos’è Lacci. Adesso lo racconto.

Un romanzo dolorosissimo

Nel 2014, Domenico Starnone pubblica uno dei suoi romanzi più incredibili. Si chiama Lacci (Einaudi), è spietato, è dolorosissimo, ha una lingua che tocca picchi di seducente coincidenza tra ciò che l’autore vorrebbe dire e ciò che dice – «il linguaggio umano è simile a un tamburo rotto su cui battiamo melodie per farci ballare gli orsi, mentre ciò che desideriamo è fare musica che commuova le stelle», scriveva Gustave Flaubert – e soprattutto racconta la verità. Racconta che i legami sono tutto e distruggono tutto. Racconta che nasciamo già incastrati nei sensi di colpa, non possiamo liberarcene.

Racconta che siamo tutti egoisti, non vediamo niente se non la parola più feroce al mondo: io. Racconta che l’amore è «un contenitore dentro cui ficchiamo di tutto», che l’amore mite non esiste, che l’amore, appena nasce, uccide. Racconta, forse, che non solo l’amore mite, ma proprio l’amore non esiste.

Lo racconta mettendo in scena una semplice famiglia: un uomo, Aldo, una donna, Vanda, nati e cresciuti a Napoli, che si sono sposati giovani e hanno avuto due figli. Sandro, nato nel 1965, e Anna, nata nel 1969. Incontriamo questa famiglia negli anni Ottanta, quando la verità ha già fatto il suo corso distruttivo. Aldo ha confessato a Vanda di averla tradita. E dopo una verità come questa cosa poteva succedere? Tutti i grattacieli sono esplosi.

Nel 2020, Lacci diventa un film. La regia è di Daniele Luchetti, che l’ha scritto insieme a Domenico Starnone e Francesco Piccolo. Apre la 77esima mostra del cinema di Venezia: è la prima volta, dopo undici anni, che la mostra è aperta da un film italiano. Il contesto è quantomeno strano: la mostra del cinema di Venezia si fa, con coraggio e anche una certa tensione. Si fa perché il cinema è uno dei settori che rischia di venir davvero lasciato in fin di vita dal virus, si fa in sicurezza, con le mascherine, il disinfettante e il distanziamento. La mostra si fa e, appunto, la apre Lacci.

Luchetti prende il romanzo di Starnone e io, che non sono a Venezia, lo vedo a Roma, in una proiezione stampa, più o meno in contemporanea. È la prima volta che torno al cinema da che è iniziato tutto.

Lacci, il romanzo, si apre con un incipit in cui disperazione e rabbia prendono forma tramite le parole. Un uso sapientissimo di ogni parola scritta, una precisione cronometrica che scava nella testa del lettore: «Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie. Lo so che questo una volta ti piaceva e adesso, all’improvviso, ti dà fastidio. Lo so che fai finta che non esisto e che non sono mai esistita perché non vuoi fare brutta figura con la gente molto colta che frequenti. Lo so che avere una vita ordinata, doverti ritirare a casa a ora di cena, dormire con me e non con chi ti pare, ti fa sentire cretino. Lo so che ti vergogni di dire: vedete, mi sono sposato l’11 ottobre del 1962, a ventidue anni; vedete, ho detto sì davanti al prete, in una chiesa del quartiere Stella, e l’ho fatto solo per amore, non dovevo mettere riparo a niente». Anche i personaggi di Lacci hanno avuto un’educazione cattolica e, tra il finire degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, se ne vergognano.

Burattini con fili invisibili

Se ne vergogna soprattutto lui, l’“egregio signore”, il “marito”, Aldo. Che ha iniziato a lavorare prima per l’università poi per la televisione a Roma, a fare avanti e indietro dalla capitale a Napoli, a conoscere gente “colta”, a sognare qualcosa di più di quello che ha. Forse non perché lo vuole, ma perché – come gli dice sua moglie Vanda e come gli dirà, non proprio con le stesse parole, la sua amante Lidia – è quello che gli capita.

Con la sua concisione profondamente letteraria, Starnone inizia il romanzo a esplosione già avvenuta. La moglie scrive al marito. Lettere spietate e innamorate insieme, intrise di quella disperazione che prima o poi abbiamo conosciuto tutti. Cogliamo Vanda nel momento più fragile della vita di ognuno di noi: quello in cui odiamo e amiamo tutto insieme, vogliamo disperatamente una persona ma vogliamo anche che sia morta, e atrocemente.

Il film Lacci si apre proprio un attimo prima che la miccia della verità si accenda, e faccia il suo corso sghignazzante. Si apre su dei piedi che ballano, durante una festa di carnevale a Napoli. La musica è il Letkis, danza popolare finlandese in voga in tutto il mondo negli anni Sessanta, e che le gemelle Kessler portarono in tv col celebre Lasciati baciare col letkiss, brano che invece chiude il film. In questo momento, mentre guardiamo i primi minuti del film, non pensiamo ad altro che a questi piedi, tanti piedi, che si muovono a tempo con la musica. La musica è al centro di tutto, insieme ai piedi, dovrebbe essere una festa, dovrebbe essere gioiosa, invece non lo è. Anche se ora è troppo presto perché tu ne conosca il motivo, percepisci chiaramente che c’è qualcosa che non va. Non va perché i piedi sono costretti in un ballo comandato, come se le persone non fossero persone, ma giganteschi burattini mossi da fili invisibili.

Non va perché sì, ci sono i coriandoli, c’è la danza, ma non c’è alcuna atmosfera di felicità. Alzi gli occhi insieme alla macchina da presa e incontri prima una bambina dagli occhi azzurrissimi e lo sguardo un po’ perso, due pomi rossi disegnati sulle guance e un mantello vermiglio, Anna (la bravissima Giulia De Luca), e poi Aldo (Luigi Lo Cascio) e Vanda (Alba Rohrwacher), che ballano uno dietro l’altra, lui con le mani poggiate sulle spalle di lei. Vanda sorride piano, distratta. Aldo è preoccupato. Lo vediamo subito. Quando Vanda si gira a guardarlo, lui le sorride. Ma è un sorriso tirato.

E a quel punto la sensazione che qualcosa proprio non va si fa sempre più potente, la gente sorride, i bambini si lanciano i coriandoli, ma è come se a tutti fosse comandato di essere felici in quel momento, di essere lì in quel momento. Ballano senza energia, senza vitalità: il contrario esatto di quello che provoca una danza. Non è liberazione: è costrizione. È come se vedessi una festa da dietro un vetro di plexiglas che lancia un’ombra scura sul destino di queste persone. Non solo di Vanda, Aldo, Sandro e Anna. Ma su tutti. Tutti noi obbligati a passi predeterminati e saltelli senza alcuna energia, mentre il mondo inevitabilmente si disfa per sempre.

Dentro queste prime inquadrature c’è tutto il Lacci di Luchetti: la colonna sonora usata in modo parsimonioso ma efficacissimo – oltra al letkis, pochi brani di musica classica –, le immagini veloci, dai colori forti, le facce che dicono più di quello che i personaggi vorrebbero dire, una scelta degli attori che contrappone il biondo innocente di Rohrwacher al bruno-nero di Lo Cascio. Rohrwacher dalla vittima alla folle di dolore alla folle aguzzina in pochissime scene. Lo Cascio come in balia degli eventi, con lo sguardo spesso perso come di chi si fa indietro e dice: non è colpa mia. Eppure certo che è colpa tua.

Ma, come nel romanzo, non è colpa soltanto di Aldo. È colpa anche di Vanda, che reagisce a un torto subito diventando la torturatrice dei suoi figli, e alla fine è anche colpa dei figli, che tenteranno, negli anni, di far tornare i genitori insieme. Non per il bene dei genitori, ma perché da bambini siamo così, tutti, o quasi tutti: contro ogni logica, vorremmo vedere mamma e papà insieme. La sera dopo la festa, Aldo confessa a Vanda che l’ha tradita. Lei vuole sapere chi, come, quando, e se quella donna la ama. E poi gli chiede: «Perché me l’hai detto?». Adesso che Aldo ha detto la verità, non si può più tornare indietro.

Quando hai amato tanto un libro, hai paura di vedere il film che ne è stato tratto. Un romanzo è tuo, lo vedi come un film nella tua mente, o un sogno, o un incubo, dài tu i volti alle persone, l’intonazione della voce, sei tu Aldo, sei tu Vanda, sei tu la coppia di fratelli vessati e danneggiati per sempre dalla guerra tra i genitori, tanto impegnati una a soffrire e accusare e l’altro a scappare e rifarsi una vita altrove, da non vederli più. Quando hai amato tanto un libro come questo, un libro fatto di silenzi, di elisioni, di anticlimax, di una violenza tanto più potente quanto più taciuta, di un senso di ingiustizia che si instilla e cresce nel lettore, e anche di una domanda così grande – perché si sta insieme ma soprattutto perché si rimane insieme –, temi che un film non saprà rendere il non detto della letteratura, o le scelte letterarie che fanno di Lacci un romanzo irripetibile.

E invece Lacci, il film, non tradisce il libro. Non solo. Ne racconta un altro lato, un’altra faccia. È come se la qualità letteraria della scrittura di Starnone, così vivida, così efficace, manesca, quasi, fosse trasposta nella rapidità di questo cinema. Il fascino letterario evapora – ma non è un male, anzi, un libro è davvero altro da un film – e rimane la violenza, immediata, forte. Il gioco di flashback, già usato da Starnone nel romanzo, qui diventa immagine, fatto, azione. Nel mezzo del film, il presente – Vanda e Aldo ormai settantenni –, il passato remoto – i primi anni Ottanta, in cui ha inizio la tragedia –, e il passato prossimo – i trent’anni che separano l’inizio dalla fine – cominciano a mescolarsi e sovrapporsi, scambiandosi di posto di continuo, turbinosamente. Come dicevo all’inizio, ogni volta che torniamo al passato abbiamo un tassello in più della verità. E se la verità in Lacci di Starnone non esiste – perché ogni pezzo della storia ci viene raccontato da un personaggio – qui la vediamo nuda e cruda. Vediamo un uomo e una donna che si ammazzano – «Mi sono ammazzata», scrive Vanda a Aldo nel romanzo, e anche nel film, «Lo so che dovrei scrivere ho tentato di ammazzarmi, ma è inesatto. Io nella sostanza sono morta. Pensi che l’abbia fatto per costringerti a tornare?» – e che ammazzano i due figli. E se sei figlio, e dato che sei o sei stato figlio, leggi questo libro, guardi questo film e odi i tuoi genitori con tutto il cuore, con tutta la rabbia che hai. Perché, qualunque tipo di genitori siano stati, i tuoi ti hanno fatto del male (e tu a loro). E tu guardi il film e leggi il libro e scopri quella rabbia, e dai voce a quella rabbia. Vanda chiude a chiave in casa – “in prigione” – Aldo, perché non se ne vada. Non solo lo fa davanti ai bambini. Lo fa chiamando a raccolta i bambini, perché vedano (possiamo andare di là, chiedono più volte i bambini quando sentono che la tensione sale, ma no, Vanda non vuole: vuole che vedano, e odino; invece l’effetto è che crescono danneggiati e spaventati anche di emettere un respiro).

Poi si chiude in bagno. E, dato che ha già tentato il suicidio (anche questa scena, forse, come sicuramente il Letkis, una citazione di Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli), quando, chiusa oltre la porta, Vanda non risponde più, Anna e Sandro muoiono di paura. Poi lei esce, è viva, ma Anna vomita. Anna e Sandro non urlano mai, non si lamentano mai, imparano pian piano a vivere sottovoce per paura che possa succedere qualcosa alla mamma. Tu sei o sei stato figlio, e queste cose le conosci. Tu sei padre o madre, e queste cose le conosci. E vedi che questo film, questo libro, ti denudano. Ti dicono: tu sei colpevole. Tu sei un assassino.

«Le cose vanno dimenticate»

Il libro copre trent’anni, ho detto. E così mi chiedevo: come si trasformeranno Vanda, Aldo, Anna, Sandro senza tradire il libro? Vanda e Aldo anziani diventano Laura Morante e Silvio Orlando, Morante glaciale, intoccabile, inespugnabile in un rancore durato una vita che è diventato distanza dalla vita, Orlando ritirato dentro sé stesso, colpevole di tutto, ancora terrorizzato di essere scoperto per chi è davvero – un ometto? un qualunque egocentrico traditore? un fallito? Anna diventa una Giovanna Mezzogiorno che contiene in ogni sorriso una mareggiata di amarezza, una crudeltà covata con gli anni che si rompe a tratti, e diventa commovente. Sandro diventa Adriano Giannini – qui fratello minore, al contrario del film – in giacca e cravatta, rasato di fresco, impomatato. Ansimante dentro la cravatta, incastrato in una miriade di ex mogli e di figli, farebbe di tutto per non cedere al ricordo, al dolore, per non pensare. L’unica che rimane cristallizzata in un’eterna giovinezza è Lidia, l’amante di Aldo, interpretata da Linda Caridi. Bellissima nelle foto nuda che le scatta Aldo da giovane, divertente, affascinante, intelligente: irresistibile. I bambini la guardano a bocca aperta, e Anna vorrebbe essere come lei, non come sua madre. Ed ecco un alto tradimento.

Non voglio svelare troppo della trama. Lacci è il romanzo del disfacimento dell’amore, della gabbia dei legami, dell’egoismo, della paura del dolore proprio e altrui – «Le cose vanno dimenticate, Anna», dice Sandro, adulto, a sua sorella. C’è un momento, nel libro e nel film, forse il momento più scioccante, in cui Aldo è appena andato via di casa. È tutto compreso nel suo amore passionale, evoluto, indipendente. I figli e la moglie sono solo un peso. Anche quando è con loro a Napoli, Aldo è con Lidia, a Roma. I figli fanno di tutto per attirare l’attenzione del padre, nei pochi momenti in cui c’è, fanno di tutto per apparire interessanti, per fare cose che possano piacere a lui, in modo che, finalmente, li veda. Ma lui non vede niente. Anna gli racconta un sogno che ha fatto e ha disegnato, ma lui non sta ascoltando. “Un sogno?”, dice, poco interessato Aldo. Anna glielo racconta. È appena tornata dal mare, e una signora le chiede, “Che ci fai qua?”. Lei dice che deve farsi la doccia, e chiede dei genitori e del fratello. E la signora le risponde “Ma… quelli sono tutti vivi”. Guardi questa scena e pensi: forse non ho capito bene. E poi però hai capito bene: Anna ha sognato di essere morta, e suo padre non l’ha ascoltata e le risponde, guardando distratto il disegno: «Che bei colori». E ti si gela il sangue, vorresti alzarti e prenderlo a schiaffi, quel padre. E però quel padre, in fondo, sei tu. E sei tu quella figlia. In queste battute, nei non detti, nelle parole a metà c’è una forza vulcanica, che ribolle e minaccia. “Per stare assieme bisogna parlare poco, l’indispensabile”, dice Aldo anziano. Bisogna stare zitti.

Mai, e poi mai, dire la verità. Di’ sempre la verità, la verità ripaga, la verità ti rende libero – ce lo ripetono da sempre. Eppure, la realtà è che la verità distrugge. Che ogni parola che pronunci può far crollare un grattacielo. Oppure un giorno smetti di aver paura, ti guardi intorno, e cominci a demolire il mondo in cui sei nato e sei cresciuto, tutto quello che ti hanno insegnato. E a quel punto inizi a ridere, senti il sangue che corre ed è caldissimo, e forse capisci che la rovina non è mai definitiva. Che tu sei tu, adesso, e non solo il tuo passato. Che puoi inforcare la porta di casa, uscire, e non tornare più.

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