Con La città proibita, il regista omaggia la sua fanciullezza contaminando una storia d’amore con arti marziali, noir, spaghetti western. «I film di kung fu possono sembrare una fuga, quell’eroe senza macchia mi aiutava a fronteggiare i nemici a scuola. Ho vissuto il bullismo, crescevamo nella tana delle tigri: bastava avere gli occhiali o essere effemminato. Con Bruce Lee potevi fantasticare di sconfiggere il male. Vorrei che il mio film sia visto da chi pensa di non essere razzista»
Era da L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente (1972) che non si vedevano sferrare così tanti calci volanti e pugni letali all'ombra del Colosseo. Questa volta al posto di Bruce Lee, dalla Cina con furore, c’è una misteriosa ragazza (Yaxi Liu) cresciuta nell’ombra della politica del figlio unico, in cerca della sorella maggiore scomparsa in una Roma Babele.
Al suo terzo film Gabriele Mainetti (Lo chiamavano Jeeg Robot, Freaks out) rende un omaggio appassionato alla sua fanciullezza contaminando una storia d’amore con i film della sua infanzia: arti marziali, noir, melodramma, azione, spaghetti western: un mix di ingredienti in salsa all’amatriciana mai indigesto, grazie alla sapiente arte della sospensione dell’incredulità e a una rara alchimia del cast.
Ambizioso e coraggioso, La città proibita (dal 13 marzo in sala con Piperfilm) celebra la bellezza di un cinema troppo spesso ridotto a cliché, malgrado le abbaglianti coreografie e i combattimenti teatrali di film che hanno lasciato un'impronta indelebile nella cultura popolare.
Da dove nasce questa contaminazione con il cinema orientale? I film di kung fu e della nouvelle vague di Hong Kong (Tsui Hark, John Woo) l’hanno aiutata a crescere in una città come Roma?
Il mio amore per il cinema di arti marziali nasce prima di tutto dalla scoperta, in televisione, dei film con Bruce Lee, che veneravo e che cercavo segretamente di imitare. Era un cinema molto maschile che mi parlava e che non ho mai rinnegato, neanche all’università dove tutto quello che non era definito cinema con la C maiuscola era considerato di serie B. Ricordo che andai a vedere il ventennale di E.T. e molti compagni di corso mi guardarono storto perché snobbavano Stephen Spielberg. Dissi loro: «Adesso che siete adulti rinnegate quei film che vi hanno spinto a studiare cinema solo perché li giudicate infantili?». Io non ho mai tradito il cinema che mi ha emozionato da ragazzo, è stato determinante per il mio immaginario. Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks out nascono proprio da quei film e dal mio rapporto con il fumetto e con l’animazione. Il cinema è anche divertimento, gioco e quando mi fanno la fatidica domanda: il cinema è intrattenimento o arte? Rispondo che è sicuramente intrattenimento artistico.
Il cinema è anche evasione, i film che vedeva da ragazzo la aiutavano a fuggire dalla sua realtà?
È vero che vedere quei film di kung fu può essere percepito come una fuga, ma in realtà quei mondi mi aiutavano ad affrontare la vita. L’eroe impavido, senza macchia, che si batte per le giuste cause è quello che ti piacerebbe essere perché sei insicuro e hai paura. Nella mia testa, quell’eroe mi aiutava a fronteggiare i nemici che avevo a scuola. Io ho vissuto il bullismo e, come dico ai miei figli, all’epoca crescevamo nella tana delle tigri. Se disgraziatamente avevi gli occhiali, eri sovrappeso, avevi la pelle di un altro colore o eri minimamente effemminato, eri il bersaglio delle cattiverie più estreme. Bruce Lee poteva darti forza, potevi fantasticare di sconfiggere in qualche modo il male, ma poi ovviamente venivi catturato dalla brutale realtà.
Per questo i personaggi dei suoi film sono tutti in qualche modo feriti dalla vita?
Anche se il mio cinema è, diciamo, fantastico, si piega sempre ad un reale che ha molto a che fare con la mia sofferenza, la mia verità. Non credo nella verità del cinema, esiste solo quella del regista e del suo sguardo. Anche nel documentario, per quanto ci si possa affannare a cercare di riprodurre il reale, c’è sempre la costruzione di un linguaggio visivo che cerca di trasmetterti qualcosa manipolando la realtà. Nei miei film cerco di fare incontrare il mio vissuto personale con la mia cultura artistica e la mia Roma ed è quello che succede in qualche modo anche nella Città proibita.
Non credi che negli anni ‘70 e ‘80 questi film di kung fu abbiano anche dato voce, corpo e forza alle minoranze etniche in un cinema che era popolato solo da attori bianchi?
Purtroppo nel nostro Paese la strada dell’inclusività sembra ancora lunga, il razzismo viene spesso sminuito come un fenomeno bonario. C’è una vera ignoranza dell’altro, anche nel cinema. Basta un minimo di approfondimento per capire che il cinema di Hong Kong è superiore a qualsiasi altro cinema al mondo nelle scene di combattimento corpo a corpo, è strabordante a livello formale e narrativo. Molti film di arti marziali hanno rivoluzionato il cinema, ma più a un livello internazionale, non so quanto il pubblico medio italiano si accorga di un cinema che non sia nostrano o americano. Mi riferisco al pubblico medio, non ai cinefili. Non mi pongo al di sopra di nessuno, ma non mi interessa fare film per un club ristretto. Vorrei che il mio film sia visto soprattutto da quelle persone che pensano “bonariamente” di non essere razziste, sarebbe bello avvicinarle a quella cultura attraverso il divertimento e la fantasia.
Usare il cinema di genere per raccontare l’Italia multietnica del presente è anche un gesto politico, giusto?
Venendo tutti da uno stesso punto preferisco parlare di multiculturalismo che a me piace tantissimo: incontrare un altro che non parla la tua lingua e capire come dialogarci. È vero, è una cosa rara nel cinema italiano.
Il suo film è anche multiculturale nei generi, oltre alle arti marziali è contaminato dalla commedia, dal noir, dal melodramma e da una storia d’amore.
Ho cercato di fondere tutto, il cinema come altra cultura è una ricchezza incredibile per chi come me è nato a Roma in un ambiente sociale piuttosto chiuso, dove, appunto, l’altra cultura significava diversità. I film sono una finestra sul mondo che ti permettono, se cerchi di approfondire, di fare dei salti internazionali pazzeschi. Se pensi all’India, a un regista come il mio amico Anurag Kashyap (Gangs of Waseypur, Ugly, Black Friday) è un cinema incredibile. Le piattaforme di streaming possono essere uno strumento di dialogo con cinematografie che non avremmo mai pensato di frequentare. Invito chiunque a farsi un giro su queste piattaforme e a cercare l’altro, che non sia appunto solo la grande star americana oppure quella italiana.
A proposito di star. Lei hai scelto due sorprendenti giovani protagonisti quasi sconosciuti: Yaxi Liu che con la sua energia e fisicità ridà corpo a un’iconografia rara nel cinema italiano, ed Enrico Borello, toccante e stralunato come un giovane Nino Manfredi.
Ho scoperto Enrico in Settembre di Giulia Steigerwalt e me ne sono subito innamorato. È un’anima fragile che porta in sé una meravigliosa romanità antica. Ho fatto 50 provini per quel personaggio, ma in realtà l’avevo scelto già dall’inizio perché mi serviva un attore con una vera abilità recitativa, capace di fondere la leggerezza della commedia con il dolore di un Amleto dei giorni nostri. Yaxi è una stunt-woman ma si è rivelata essere anche una grande attrice. Le scene di arti marziali erano così importanti, precise e narrative nel film che mi serviva una vera “Bruce Lee”, non un’attrice che lo interpretasse. Così ho dovuto a malincuore dire di no a diverse attrici straordinarie e ho scelto una guerriera come Yaxi contro il volere di tutti. Dicevano: «Mainetti è pazzo, vuole fare un film costosissimo con una che non è manco un’attrice». Invece si è rivelata la scelta giusta, ha messo tutta la sua rabbia e la sua sofferenza in un personaggio che le assomiglia molto: è una terzogenita e il papà le ha insegnato il kung fu fin da bambina.
Che sfida è stata La città proibita dopo un kolossal: sfiancante come Freaks out?
Me lo sogno ancora. La città proibita è stato, come tempistiche e emotivamente, il film meno sofferto che ho girato. Per la prima volta sentivo di avere una giusta distanza. Certo, è stata una sfida costante, anche se mi preparo minuziosamente, la cosa meravigliosa del mio mestiere è quando, di fronte alla sorpresa e all’incognita di una scena, devi trovare soluzioni per contenere l’imprevisto. Morirei se facessi film per gli “amichetti” miei che mi fanno sentire sicuro. Se sulla carta il film è già tutto chiaro e preciso, sono convinto al 100% che farò un film orrendo. Io devo vivere la difficoltà perché la vita è scomoda, un film deve essere una sfida totale, forse è per questo che mi piace il cinema d’azione.
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