Con La città proibita, il regista omaggia la sua fanciullezza contaminando una storia d’amore con arti marziali, noir, spaghetti western. «I film di kung fu possono sembrare una fuga, quell’eroe senza macchia mi aiutava a fronteggiare i nemici a scuola. Ho vissuto il bullismo, crescevamo nella tana delle tigri: bastava avere gli occhiali o essere effemminato. Con Bruce Lee potevi fantasticare di sconfiggere il male. Vorrei che il mio film sia visto da chi pensa di non essere razzista»
Era da L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente (1972) che non si vedevano sferrare così tanti calci volanti e pugni letali all'ombra del Colosseo. Questa volta al posto di Bruce Lee, dalla Cina con furore, c’è una misteriosa ragazza (Yaxi Liu) cresciuta nell’ombra della politica del figlio unico, in cerca della sorella maggiore scomparsa in una Roma Babele. Al suo terzo film Gabriele Mainetti (Lo chiamavano Jeeg Robot, Freaks out) rende un omaggio appassionato alla sua fanciullezza contamina



