Fino ai sette anni, ero convinta che, con un po’ di impegno, sarei potuta diventare un maschio. Anche mio cugino ne era certo. Era più grande di me e le sue parole erano il Vangelo incarnato. Avevo imparato a non piangere mai, a sputare lontano e a catturare le lucertole. Non dovevo mai dire di aver paura, che ero triste, che mi avevano fatto male. Non pronunciare mai la parola “scusa”. Dimostrare sempre di essere forte e fare di tutto per vincere.

Mi sono impegnata a fare tutto questo, e, tuttavia, non sono diventata un maschio. A un certo punto, quindi, cominciai ad essere esclusa dai giochi che avevo sempre amato, perché ero femmina. Avevo sette anni.

Varcare pericolosi confini

Che cosa vuol dire essere una femmina? Che cosa vuol dire essere un maschio? Sono quelle cose che devi capire al volo e, se ti sbagli, ci pensa il mondo intorno a metterti al posto che ti spetta. Tuttavia, quando nessuno ci vedeva, nei lunghi pomeriggi nella campagna dei nonni, ogni tanto mi veniva concesso di scorrazzare nel mondo dei maschi. Potevo fare il pirata o l’assassino. Potevo arrampicarmi sugli alberi, fino in cima. Potevo lottare, urlare, correre, esplorare posti che nella nostra fantasia erano infestati da serpenti velenosi. Adoravo queste scorribande occasionali tra le cose da maschi. Solo che non avveniva mai il contrario. I miei cugini mai e poi mai si sarebbero avventurati nei miei territori. Per un maschio, fare dei giochi “da femmina” era impensabile.

Se io acquistavo qualcosa giocando come loro, i miei cugini avrebbero perso qualcosa se avessero giocato come me. E se i pentolini potevano, ogni tanto, essere adoperati per inventare misteriosi veleni, creati mescolando detersivi di tutti i tipi, le bambole erano una specie di tabù. I maschi dovevano non solo starne lontano, ma anche dimostrare chiaramente di disprezzarle. I maschi non giocano con le bambole. Se lo avessero saputo gli adulti o peggio ancora gli amici, sarebbe stata la fine.

Una volta mi sembrò di notare uno sguardo obliquo di mio cugino verso il mio Cicciobello nuovo di zecca. Mi permisi di portarglielo per farglielo vedere. Fu uno sbaglio. Si sentì offeso, litigammo furiosamente, mi picchiò più forte che poteva: come potevo anche solo immaginare che un maschio potesse desiderare di giocare con una bambola? Allora non avevo capito proprio niente! Quel mio errore segnò una specie di frattura nella nostra relazione: con la mia offerta lo avevo esposto a un pericolo.

Come si gioca da maschi?

Sono passati diversi anni da quei pomeriggi trascorsi in un cortile assolato del Salento. Tantissime vite, moltissimi ricominciamenti mi hanno portata oggi a essere una Bambolaia e una Maestra di Bambole a tempo pieno. Significa che, il mio lavoro consiste nell’insegnare alle persone a ricucirsi e rinascere tra le proprie mani attraverso una bambola.

Lo so, è un mestiere strano che però, tra le tante cose, mi regala un meraviglioso “buco della serratura” attraverso cui guardare il mondo fortemente stereotipato in cui viviamo. In questi dodici anni, ho potuto osservare molto, ascoltare molto, annotare molto. Gli orizzonti che mi hanno più interessata e colpita sono stati quelli che mi portavano indietro nel tempo, nel mio cortile di bambina: che cosa provoca una bambola se viene collocata nel mondo dei maschi? 

A questo proposito, quasi quotidianamente, il mio lavoro mi porta dentro a conversazioni surreali. Faccio qualche esempio. «Che belle le tue bambole! Vorrei tanto imparare a farne una, però, peccato! io ho solo maschi!» Questo tipo di frasi mi vengono rivolte da mamme o nonne. «Peccato!» mi dicono, «abbiamo solo maschi!»

Si dà per scontato che la bambola non possa entrare nel gioco dei bambini. «Peccato! Avessi una femmina, subito, gliele farei tutte quante. Ma ho dei maschi (purtroppo) e i maschi, si sa, non giocano con le bambole».

«Mio figlio è tanto tempo che mi chiede una bambola! Io gliela farei così volentieri, ma se poi lo scopre mio marito, sono guai. È impossibile».

Il quadro disegnato da queste parole è molto chiaro. Si vedono bene delle forze che lavorano all’opposto: la madre che non può andare incontro al desiderio del bambino perché il padre non lo accetterebbe mai. E questa non accettazione vince su tutto.

«Ho bisogno di un consiglio. Mio figlio/nipote mi ha chiesto una bambola. Che cosa significa? Non è che è gay? Che cosa possiamo fare? Dove abbiamo sbagliato?»

Che cosa posso aggiungere a queste parole? Penso al bambino in questione e il cuore mi diventa piccolo piccolo. Lui desidera un gioco, ma le lenti curvate dagli stereotipi patriarcali attraverso cui gli adulti guardano il mondo, lo fanno apparire come un bambino “sbagliato”. Qualcosa è andato storto nella sua educazione. Qualcosa non è al posto giusto. Perché non chiede un trattore, una ruspa, un fucile o il pupazzo di un soldato? Poi però, il mio punto di osservazione da Bambolaia mi mostra anche delle famiglie dove si accolgono con molta gioia le bambole per i bambini. Mi scrivono mamme, papà e nonne che mi chiedono di insegnare loro le bambole per i maschi.

Anche in questa cornice più felice, però, gli adulti cercano sempre di giustificare la richiesta. Alcuni dicono che la bambola è solo un gioco, che il bambino desidera semplicemente imitare il papà o vuole giocare a fare il papà. Altre persone raccontano di aver letto studi e ricerche su quanto le bambole siano importanti nello sviluppo armonioso del bambino, quanto siano utili per sviluppare l’empatia, imparare a prendersi cura, mettersi nei panni degli altri.

Fatto sta, che l’oggetto bambola difficilmente rimane neutro quando entra in contatto con il mondo dei maschi.

Sconfinamenti e vergogna

La realtà ci racconta quanto sia ancora molto difficile per un maschio sconfinare tra le “cose da femmina”. Un maschio scopre molto presto che indossare una gonna, mettere uno smalto alle unghie, giocare con una bambola lo espone a un giudizio feroce da parte del mondo degli adulti (e ancora peggio da quello dei coetanei). Che stai facendo? Non lo sai che è da femmina? Non ti vergogni?

Lo sconfinamento del maschio è diverso da quello della femmina. La femmina non deve permettersi di “alzare la testa” e le va insegnato qual è il suo posto. Il maschio va punito facendogli provare un forte senso di vergogna: deve capire che ci vuole un attimo a “degradarsi”. In un contesto così feroce, diventa davvero complesso accogliere completamente un bambino come una persona che può esprimere liberamente sé stessa.

Ricordo con chiarezza una mamma, che aveva ceduto alle richieste insistenti del figlio. Gliela faccio la bambola, mi disse, però mi ha promesso che ci giocherà solo con le ruote. Non capii subito. Mi spiegò meglio. Ci giocherà solo facendola correre su un passeggino rosso, che gli hanno regalato gli zii. Una bambola con le ruote. Quindi sì, una bambola, ma solo fino a un certo punto: per essere accolta nel mondo del bambino doveva assomigliare anche un po’ a una macchina o a un trattore. Ma perché?

Il fatto è che i genitori hanno paura ad assecondare questi sconfinamenti dei propri figli, perché conoscono il prezzo da pagare, sanno quanto possa essere doloroso per un maschio addentrarsi tra le cose da femmina e cercano di evitare, come possono, di esporre il bambino a questa dura realtà.

E quindi si intraprende la strada del compromesso. La gonna sì, ma solo in casa. Lo smalto sì, ma non a scuola. La bambola sì, ma con le ruote. Perché lo sanno che prima o poi arriverà lo sguardo gelido, la parola giudicante, il gesto sprezzante che insegneranno al bambino quanto sia alto il prezzo da pagare per chi, sin da piccolo, non si comporta come “un vero uomo”, ma come “una femminuccia”. Le alte mura che circondavano il mio piccolo cortile di bambina, ancora sono lì, intatte o quasi.

Vorrei inventare una “bambola a orologeria”, che faccia saltare in aria queste gabbie, perché bambine e bambini possano essere semplicemente persone da accompagnare alla scoperta del proprio vero Sé.

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