Marco 2, 21-22
«Nessuno cuce un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo porta via qualcosa alla stoffa vecchia e lo strappo diventa peggiore. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri, e si perdono vino e otri. Ma vino nuovo in otri nuovi!».

C’è chi si sveglia con un buon proposito. Salverò i delfini, adotterò bambini a distanza, scriverò all’ex-amico che mi ha tradito dicendo che lo perdono, allungherò dieci euro al mendicante che vive sulla soglia di un negozio sfitto. C’è chi si sveglia con uno stuolo di cattivi propositi. Ruberò un portafoglio al collega mentre è distratto, salterò ogni impegno preso, berrò tutta la vodka che c’è nella bottiglia e la riempirò d’acqua.

Marco era il tipo che si sveglia pieno di buone intenzioni. Amarmi, onorarmi. Servirmi addirittura, nel senso di fare la spesa, passare l’aspirapolvere e stendere le lenzuola quando è finito il ciclo della lavatrice, persino lavare i vetri, di tanto in tanto. Era bravo, questi propositi li realizzava, benché io poi gli rinfacciassi che, forse troppo affaccendato nel rendermi la vita facile, non si impegnasse a cercarsi un impiego.

In realtà, grazie a lui, potevo almeno andare al lavoro sapendo che al ritorno avrei trovato il letto rifatto, il frigorifero pieno, e magari persino un mazzo di tulipani in un vaso accanto al mio computer. Questo per quanto riguardava i suoi buoni propositi e la loro realizzazione. Non solo si occupava della casa, non solo ogni mattina mi baciava mentre uscivo, e sussurrava frasi affettuose e incoraggianti quando mi lamentavo per la pesantezza della giornata che mi aspettava, ma pure riempiva le sue giornate scrivendo elenchi di suggerimenti per eventuali suoi lettori o follower, che poi in effetti non aveva perché viveva chiuso in un suo mondo al cui centro c’era lui, o meglio ancora lui con me.

Per esempio, ricordo quando aveva passato giorni e giorni per compilare sul mio computer un “ennalogo” di suggerimenti per questo suo pubblico che ancora non esisteva, e allora il gruppo di seguaci fantomatici l’aveva surrogato in me. Ogni sera mi rileggeva i suoi comandamenti, modificandoli continuamente. Infine, l’aveva fatto stampare in due fogli e plasticare in qualche copisteria del quartiere e l’aveva incollato sulla porta del frigorifero.

Nove consigli per spiccare

I tempi richiedono di trasformare il nostro habitus mentale, che è statico, e indossarne uno nuovo, mutevole. È in corso un cambio di paradigma con cui deve fare i conti anche chi, come noi, ha vissuto la forma di vita più confortevole e allettante che si sia mai vista sulla faccia della terra, quella del cittadino europeo. E allora, ecco per voi un ennalogo, utile per essere al passo coi tempi.

Primo: non affezionatevi agli oggetti, agli amici, alle case, ai quartieri. Diventate come americani sempre pronti a traslocare con uno scatolone e poco più. Se appassionati di vestiti: compratene di nuovi (meglio di seconda mano) solo se avete venduto quelli precedenti, magari affidandovi allo stesso sito che usate per rinnovare il guardaroba.

Secondo: parlate (male) tutte le lingue. Fate corsi online di francese, inglese, spagnolo, tedesco, portoghese, cinese… La correttezza grammaticale e la ricchezza lessicale non interessano più a nessuno, tanto non c’è più chi sia in grado di coglierle. Più importante è esprimersi con una pronuncia che non sia grottesca.

Terzo: non fidanzatevi troppo, perché ogni rapporto sentimentale stabile può essere confortante ma è anzitutto una palla al piede. Bisogna poter prendere decisioni veloci sulla sede del proprio lavoro, senza l’aggravio di relazioni paralizzanti. Senza che un domani qualcuno, come è inevitabile, vi presenti il conto recriminando sul sacrificio fatto per seguirvi.

Quarto: vivete di sharing, soprattutto perché la parte sgradevole del possesso, cioè la manutenzione e il rinnovo del bene, tocca a qualcun altro.

Quinto: non affezionatevi agli studi fatti. Se vi siete laureati in medicina e non trovate il posto agognato, reinventatevi arredatori di camere d’ospedale o anche battitori di aste online: non è mai troppo tardi per ricominciare da zero.

Sesto: buttatevi nel mercato del lavoro prima possibile, non perdete tempo e denaro in master su master. Potrete recuperare in seguito, quando vi sarete orientati meglio.

Settimo: leggete per conoscere solo la superficie degli argomenti ed essere informati di tutto. Questo vi aiuterà nel costruire il capitale di relazioni, ben più di uno strabiliante curriculum scolastico.

Ottavo: considerate che una vita da artigiano con capacità manuale può essere l’ultima risorsa ma forse anche la prima, persino ai tempi delle stampanti 3D.

Nono: se un servizio è gratis, allora il prodotto siete voi. Mettete in conto molestie d’ogni genere, che dureranno molto più a lungo del vostro interesse per il servizio che vi è stato offerto.

Lì per lì, impigrita dalla consuetudine a lasciarlo fare, dalla fatica e dalla frustrazione delle giornate passate in giro per case ad aprire finestre e persiane, far visitare appartamenti pieni di difetti a persone che non avevano chiaro né il proprio budget né i propri gusti, e poi richiudere tutto e andare a un nuovo appuntamento, magari dall’altro capo della città in un giorno di pioggia e traffico infernale, e via di nuovo apri, visita, spiega, sorridi, saluta, richiudi, azzeccando una compravendita ogni cento e più visite andate a vuoto, lì per lì, dicevo, evitavo di chiedergli ragione dei vari punti di questi precetti, così radicalmente diversi dal suo stile di vita.

Marco era affezionato ai miei mobili e addirittura saldamente installato nella mia casa, era fedelmente fidanzato con me, non parlava lingue, non cercava lavoro, non si informava. Ero sfinita dalle discussioni quotidiane con i clienti, con i colleghi, con la titolare, persino con i miei genitori che non accettavano che vivessi con un disoccupato nella casa che mi avevano comprato con tanti sacrifici, e di cui ancora pagavano il mutuo.

«Vedrete, cambierà, sta solo attraversando un periodo di crisi», «Mi aiuta moltissimo, senza di lui non so come farei», «Ha molte idee, potrebbe essere un leader», dicevo ai miei genitori, che l’avevano preso in antipatia e per non incontralo non venivano più nemmeno a trovarmi. «È difficile ottenere un lavoro con una laurea triennale in filosofia», lo giustificavo ai loro occhi, e più ancora ai miei.

Il futuro

Pensavo al futuro: era l’uomo adatto per me, per costruire una famiglia, avere dei figli, proiettarci nel futuro, dare il nostro contributo all’edificazione di una società civile, corretta, responsabile? Al momento poteva sembrare di no, ma lui sicuramente sarebbe cambiato, forse era depresso. E poi non avevo la forza di questionare: ero così contenta di trovarlo a casa la sera, ed ero così impegnata a guadagnarmi la vita, a guadagnarcela anzi, dato che Marco era totalmente sulle mie spalle, era un “accollo”, e lottavo ogni giorno sperando di trasformare la bruttezza delle mie giornate lavorative in quello che era stata la mia passione e sogno iniziale, ossia vendere belle case a belle persone, come nei reality che seguivo su Netflix, le case di Parigi, gli appartamenti di Chamonix, le ville di Bel Air, le finca di Ibiza.

Invece, per il momento, mi affidavano da vendere solo brutti primi piani dalla pianta sconclusionata in quartieri con promesse di gentrificazione non ancora realizzate, appartamenti che solo costosissimi lavori di ristrutturazione avrebbero potuto trasformare in abitazioni sensate.

Ma erano gli inizi, tutto sarebbe migliorato. Marco avrebbe trovato una propria via, io avrei conquistato la fiducia della titolare dell’agenzia che mi avrebbe concesso di dedicarmi a soluzioni abitative meno disgraziate. Ogni tanto, con estrema delicatezza, cercavo di porgli domande sulla differenza tra il suo stile di vita e i consigli dell’ennalogo, ma lui si irritava, diventava anche aggressivo, diceva che stava cercando una propria via di influencer che ci avrebbe arricchito e mi avrebbe permesso di lasciare il lavoro. Guai a me, anzi, se avessi fatto parola con qualcuno di queste sue idee: le avrebbero copiate, facendo soldi al posto suo.

«Come si fa a diventare ricchi con questi nove consigli?», chiedevo. «Non capisci», rispondeva, «la gente ha bisogno di orientamento, sarò il vate di una specie di religione civile, mi chiederanno come realizzare queste direttive e a quel punto li farò pagare. Consulenze pratiche, meglio di uno psicologo, di uno psicoanalista, di uno psichiatra, tutte discipline aleatorie mentre io do consigli concreti.»

Cominciò a chiedermi soldi. Voleva assoldare un esperto, che avrei dovuto trovargli io, affinché creasse questi suoi decisivi profili social e li riempisse di contenuti secondo le sue direttive. Provai a dirgli di fare da solo, che con le mie rare provvigioni e il miserabile stipendio mensile vivevamo sempre sull’orlo dell’indebitamento.

Diventò irritabile. Diventai irritabile. Tornavo a casa e la lavatrice che avevo avviato la mattina era ancora piena di biancheria che non aveva steso. Fumava. Non facevamo più l’amore. Diventò geloso e insinuava che incontrassi altri uomini con la scusa del lavoro. Voleva che mi licenziassi e mi occupassi io di costruirgli i profili social da cui poi avrebbe diffuso il suo dannato ennalogo.

Gli dicevo che a ventisei anni, buttato sul divano tutto il giorno, non poteva consigliare niente a nessuno. Mi alzavo di cattivo umore e, appena appoggiato un piede fuori dal letto, cominciavo a cercare di spronarlo. Lui mi accusava, io lo accusavo. A volte facevamo pace, lui mi prometteva che avrebbe iniziato a lavorare, in modo da pagarsi questo suo illusorio social manager, e poi però tornava a chiedermi di lasciare il lavoro e occuparmi di lui, del lancio della sua carriera di influencer. Non faceva più la spesa, non faceva il letto, non mi baciava, lasciava il bagno sporco. Secondo me non pensava.

I miei genitori vennero a casa, a sorpresa, un sabato sera. Promise loro che avrebbe cercato un lavoro. Il lunedì mattina uscii di casa insistendo perché si decidesse a scrivere un curriculum anche mezzo inventato, dove si dimostrava attivo e inventivo, e lo inviasse, portasse, diffondesse. Più tardi chiamai il padre di Marco, pregandolo di spingerlo a cercarsi un lavoro. Disse che glielo aveva suggerito molte volte, ma era maggiorenne e non poteva imporgli nulla. Ero io che lo avevo sottratto alle regole della famiglia, trascinandolo a vivere con me.

L’avrebbe preso a lavorare con sé, nel suo vivaio. Poteva vendere vasi e piante e fertilizzanti e arredamenti da giardino, non era un lavoro di fatica, non doveva spaccarsi la schiena come i giardinieri. Ma aveva sempre rifiutato, era un’attività inadatta alle sue attitudini. Fatti miei, stava con me, era grande, che ci pensassi io.

Bene, lo rieducherò, pensai ancora una volta. Gli farò capire che per investire in queste sue attitudini deve mettersi alla prova con un lavoro di vendita. Se deve commercializzare se stesso con il suo ennalogo, cominci a vendere qualcos’altro.

Nel frattempo, cambiando agenzia, ero riuscita a fare un piccolo scatto di carriera. Non più case in posizioni disgraziate, sopra bar della movida, o con finestre su un cortile buio, oppure al primo piano di vialoni sulla direttiva di ospedali, dove giorno e notte passano ambulanze a sirene spiegate. Ora avevo case del centro, aspiranti compratori con più entusiasmo e possibilità economiche. Il divario tra la loro vita e la mia appariva con tutta la sua disarmante evidenza.

Ma ancora speravo di convincere Marco a riprendere in mano il suo futuro, a dar corso ai suoi progetti, per quanto fossero bislacchi. Lo amavo ancora? Non direi. Lo avevo adottato, più che altro. Ero impegnata nel progetto pseudo genitoriale di rimettere in piedi un individuo inceppato.

L’appartamento

Un giorno mostrai un appartamento in affitto a un signore di bell’aspetto, con una barba bianca curata, lunghe mani con macchie dell’età, lo sguardo acquoso di chi ha gli occhi chiari. Aveva esaminato la pianta dei locali, e mi disse che l’appartamento gli sembrava adatto per farvi il suo studio professionale. Dopo quasi trent’anni, il suo attuale studio era stato venduto e i nuovi proprietari gli avevano dato lo sfratto.

Una volta dentro l’appartamento, quel signore trovò invece che non faceva al caso suo. Il rumore che arrivava dalla strada, lo stridio del tram, era eccessivo. «Sono un mental coach – disse – i miei clienti, quasi tutti atleti, hanno bisogno di silenzio e concentrazione. Non possono essere disturbati da questi sibili metallici fortissimi, come se fossimo in una fonderia».

Argomentai che gli infissi erano vecchi, che avrebbe potuto magari mettersi d’accordo con il proprietario e sostituirli con finestre insonorizzate. Ma il pavimento di marmo bianco gli dava un senso di gelo. Lui e i suoi clienti avevano bisogno di calore. In pratica, a lui piaceva il parquet. «Può coprirlo con delle stuoie o dei tappeti – suggerii – o incollare un parquet in pvc.»

«Signorina – mi disse – l’appartamento non fa per me. Lei conosce la parabola del vino nuovo negli otri vecchi?» No, non la conoscevo. «Guardi, è illuminante. Non c’è bisogno che lei sia credente, è saggezza allo stato puro, senza misteri della fede. Le servirà nella vita». Mannaggia, quel bel cliente mi era sfuggito, pensai.

«È anche nota come parabola della toppa vecchia sul vestito nuovo. Gesù si rivolgeva ai suoi discepoli, che cercavano a fatica di convertire farisei e scribi. Disse loro che nessuno strappa un pezzo di stoffa da un vestito nuovo per rattopparne uno vecchio, così come, se si mette del vino nuovo in un otre che ne contiene del vecchio, lo si rovina e più nessuno lo beve. Anche perché gli amanti del vecchio vino, ossia i farisei e gli scribi, sono convinti che solo quello sia buono, hanno già delle abitudini, dei preconcetti, delle convinzioni, non hanno nessuna intenzione di cambiarle. Non vogliono il vino nuovo».

Passò un tram, e smise di parlare perché il rumore della curva sulla rotaia ne copriva la voce. Poi riprese: «Come per questi discepoli era inutile andare a cercare di convertire persone già fissate nelle proprie convinzioni, vini vecchi, vestiti vecchi, ed era invece meglio rivolgersi a giovani dall’animo sgombro, così questo appartamento non va bene per me. Dovrei fare troppe modifiche, troppi adattamenti, non mi ci troverò mai a mio agio». E concluse: «Ci pensi quando accompagna un cliente a visitare una casa che non lo convince. O scatta l’amore a prima vista, oppure state solo perdendo tempo, lei e il cliente. Questo glielo dico con affetto, per i suoi sforzi e per la sua giovane età: pensi alla parabola e la usi come chiave di interpretazione del mondo.»

Il giorno dopo, era sabato, diedi cento euro a Marco e lo mandai a fare commissioni piuttosto complicate. La farmacia, dove c’era sempre coda, il supermercato, la tintoria. Lui non aveva voglia, ma non sentii ragioni. Stavo male, avevo bisogno di assorbenti, di analgesici, di yogurt, eccetera eccetera. Avevo convocato un fabbro. Cambiò la serratura, mentre riempivo velocemente borse e valigie con le cose di Marco. Appoggiai tutto sul pianerottolo, accanto alla porta. Una busta conteneva un saluto e una copia della parabola, stampata dal web. «Inutile cercare di cambiarti. Ho sbagliato, resta quello che sei. Ma quello che sei non è adatto a me. Addio.»

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