In pole position per la Palma d’oro 2025 c’è sicuramente lo straordinario The Secret Agent di Kleber Mendonça Filho, un ambizioso noir ambientato in un Brasile soffocato dalla dittatura militare. Attraverso un’affascinante ricostruzione estetica e musicale del Brasile degli anni ‘70, il regista di Aquarius ci immerge in un puzzle narrativo in cui si mescolano diversi generi cinematografici (thriller storico, film di spionaggio, erotico, gore, film di gangster) per illustrare la labirintica complessità dell’incubo politico che si abbatte sul misterioso protagonista, interpretato da un magnifico Wagner Moura (Narcos).

Kleber Mendonca Filho

Si può dire che più che uno spy movie, il suo è un film sulla memoria collettiva del Brasile e sulla mitologia del cinema della sua infanzia?

Credo di sì, ho parlato a lungo con i mei collaboratori artistici dell’idea di tornare indietro nel tempo usando il cinema, ed è stato quasi come un gioco. Recife, dove è ambientato il film, non è un posto archeologico come Roma in cui si sente il peso dei secoli di storia, ma è comunque una città che ha 500 anni e che è stata sistematicamente demolita nel tempo. E questo è un tema che ho affrontato anche nei miei altri film. The Secret Agent mi ha permesso di tornare nella città in cui sono cresciuto ed esplorare il mio rapporto con essa. Nel 1977 avevo nove anni e sento ancora l’odore di quegli anni, per via della situazione familiare che vivevo all’epoca. Il film è molto denso di ricordi e ho cercato di scalfire la patina superficiale di molti film e serie in costume, immergendo gli spettatori nelle sensazioni che respiravo da piccolo, negli anni ‘70. Più che il racconto di un evento storico volevo ricostruire l’atmosfera storica di quegli anni.

Parlando del 1977 ha accennato di avere vissuto una situazione familiare particolare, ce ne vuole parlare?

Mia madre si ammalò alla fine dell’anno, mio fratello e io eravamo bambini, non capivamo bene la situazione e ovviamente per proteggerci cercavano di tenerci lontani dal dolore. Ronaldo, il mio zio più giovane, che all’epoca era uno studente, ci prese sotto la sua ala drogandoci di film. Abbiamo passato il 1978 al cinema e questo mi ha segnato molto. Solo più tardi, da adolescente, ho capito quanto il cinema sia stato un rifugio per noi, non solo dalla malattia ma anche dall’atmosfera oppressiva di quegli anni.

In Italia erano gli anni di piombo, Aldo Moro fu rapito e assassinato nel ‘78 e intanto, come nel suo film, i cinema straripavano di film di genere per dimenticare il presente. 

È interessante che lei menzioni Aldo Moro perché all’epoca c’era una rivista nazionale molto importante, Manchete, era una specie di Paris Match brasiliano. Non dimenticherò mai le foto dell’assassinio delle guardie del corpo di Aldo Moro, e il volto di Moro, fotografato dai brigatisti, che furono pubblicate sulle pagine di quel giornale. Erano oneste e brutali. Mi sono ispirato molto a quelle foto nel film, e nel racconto ho inserito molti ricordi visivi della carta stampata dell’epoca. I giornali erano ovunque e ricordo che nella cronaca nera c’erano immagini di una violenza impensabile per gli standard attuali. Oggi si possono vedere foto orribili su internet, ma non più sui giornali.

Come spiega il successo incredibile dei film horror e catastrofici di quegli anni? Sono molto presenti anche nel suo film.

Erano film proibiti che sognavo di vedere. Il Presagio era vietato ai minori di 18 anni e Lo Squalo, che era la mia ossessione, ai minori di 14. Sono riuscito a vederli solo negli anni ‘80 in VHS. Da piccolo ero talmente affascinato da Lo Squalo che passavo il mio tempo a disegnare la locandina del film. È forse troppo complesso psicoanalizzare un periodo storico, ma è molto chiaro che il mondo stava attraversando un periodo di grande violenza. Uscivamo dalla guerra in Vietnam, e dai colpi di stato in Cile, Brasile e Argentina. Il cinema rifletteva quel clima con i film di Peckinpah o di Arthur Penn, per esempio. I film catastrofici come Terremoto, Uragano o L’inferno di cristallo raccontavano la rivincita della natura sull’uomo, perché gli anni ‘70 furono probabilmente il periodo più radicale, in cui l’ambiente fu sostanzialmente distrutto. Ci sono dei film australiani straordinari che lo raccontano, come i 2 primi capitoli di Interceptor (Mad Max). Un altro capolavoro australiano la cui ruvidezza mi ha ispirato molto per la prima sequenza nella stazione di benzina è Wake in Fright di Ted Kotchef (1971).

Quanto è importante raccontare l’amnesia politica del Brasile e cosa ha pensato di un altro film che parla della dittatura militare in Brasile: Il premio Oscar Io sono ancora qui (I’m still here) di Walter Salles?

Ho visto il film di Walter a Venezia e gli ho mandato un messaggio scrivendogli: «Siamo come due fratelli che non sapevano l’esistenza dell’altro». Sono film molto diversi che hanno entrambi a che fare con la memoria: il personaggio di Eunice Pavia nel film di Salles lotta per ripristinare un rispetto storico, in The Secret Agent invece, racconto l’effetto che ha sul figlio del protagonista l’amnesia autoinflitta in Brasile. Nel 1979 l’esercito ha approvato la legge sull’amnistia, dicendo in pratica: tutto ciò che è successo sotto il regime militare è ora perdonato, dobbiamo semplicemente andare avanti e pensare a un futuro migliore. L’amnistia ha permesso a tanti orribili generali e colonnelli psicopatici, oggi novantenni, di continuare a vivere con una pensione altissima, pagata con i soldi dei contribuenti. Il Brasile ha subito un trauma che non ha ancora elaborato perché gli orrori sono semplicemente stati cancellati e sminuiti da chi li ha commessi. Non mi piace paragonare le tragedie, ma è una situazione molto simile al post-franchismo in Spagna. Certo, da loro la dittatura è iniziata negli anni ‘30, quindi è stata più lunga e sanguinosa, ma l’amnesia autoinflitta è avvenuta anche in Spagna.

Quali sono state le ripercussioni del governo Bolsonaro sul cinema brasiliano?

Quando Dilma Rousseff fu destituita da Bolsonaro con il cinico colpo di stato del 2016, la prima cosa che fecero fu smantellare il ministero della Cultura. Lo hanno ripristinato un mese dopo perché non potevano abolire le leggi costituzionali che garantiscono il finanziamento della cultura, ma lo hanno fondamentalmente trasformato in uno strumento per attaccare, sabotare e bloccare gli operatori culturali in Brasile. Quindi i fondi ci sono ma per sbloccare i pagamenti, fare i modo che le nostre cartelle non si perdano misteriosamente, siamo ogni volta costretti ad andare in tribunale. Mia moglie Emilie Lesclaux, che è produttrice del film, ha dovuto farlo anche questa volta.

Come spiega l’ascesa delle ultra destre nel mondo, è un fallimento culturale?

Penso che sia molto dovuto alla nostra capacità di filtrare le informazioni che sono sempre più distorte. Ero giornalista negli anni ‘90 e ho sempre creduto che l’informazione dovesse essere libera e indiscussa. Per esempio: l’acqua è bagnata, è indiscutibile, ma ho scoperto con mia grande sorpresa che dopotutto non è più una certezza, le convinzioni politiche diverse affermeranno che invece è umida, e faranno di tutto per creare scompiglio e far passare il loro messaggio. Basta pensare a quello che è successo con la questione dei vaccini Covid in Brasile: Bolsonaro era antivax e ha cercato in tutti i modi di sminuire l’epidemia e di disinformare il popolo. In un’epoca di propaganda, di frammentazione della verità, che è anche uno dei temi del film, informare con obiettività e fare approfondimenti culturali è diventato un lusso. Ma c’è ancora un lato ottimista in me, sono ancora qui a parlare faccia a faccia con lei… forse tra 15 anni riceverò un modello compilato dall’intelligenza artificiale da approvare per un’intervista fittizia che non è mai avvenuta.

© Riproduzione riservata