Perché non ripartire dall’impossibilità di essere normale? C’è uno zoccolo duro della trasgressione che pertiene strutturalmente al Dna, e che precede il rifiuto di omologarsi. È la mia natura, spiega lo scorpione alla rana che lo trasporta, dopo averla trafitta contro il proprio interesse. L’impossibilità di essere normale era l’insolitamente azzeccato titolo italiano di Getting Straight, affilata e sottostimata commedia del 1970 con Elliott Gould, che intercettava lo spirito di Berkeley anche meglio del contemporaneo Fragole e Sangue (The Strawberry Statement). C’è una impossibilità di essere normali che accomuna Mr. Bean e Monsieur Hulot, o meglio lo slapstick fondamentalista e anticonsumista di Mon Oncle - che nel 1959 guadagnò l’Oscar per il miglior film straniero a Jacques Tati – e la resurrezione di Rowan Atkinson dalle proprie ceneri nella serie Man vs Bee, che da giugno è su Netflix. Creatura sbocciata nel cabaret, Mr. Bean ha dato il suo meglio nella stagione televisiva 1990-1995. Da sitcom a siparietti, perfette per lo schermo di casa, le catastrofiche imprese del candide britannico perdevano ritmo nelle trasposizioni stiracchiate per il grande schermo. Man vs Bee è un ritorno all’ovile tv dell’ormai attempatello Atkinson-Bean, senza la penna preziosa di Richard Curtis, suo coautore fedele nel secolo scorso. Curtis, tanto per capire la partnership d’eccellenza, è quello di Quattro matrimoni e un funerale, di Notting Hill, di I Love Radio Rock e di Love Actually (anche regista negli ultimi due): probabilmente il più formidabile cervello da commedia oggi in attività. In comune con il Tati di Mon Oncle l’epica sfida tra l’uomo e l’ape ha molto più dell’afasia programmatica e strategica dei due personaggi.

Li unisce l’irriducibilità alle diavolerie della civiltà tecnologica, che con Tati era agli albori e qui, un settantennio dopo, si annette la paranoia da password e le imboscate della domotica. Persino la villa megagalattica in cui Rowan Atkinson si installa in qualità di house keeping sembra una replica di quella sbertucciata dal principe della comicità (quasi) muta francese.

Le gag più gustose nascono proprio da questo sgomento, largamente diffuso, di fronte alla dittatura della tecnologia, anche se a far da detonatore, come da titolo, è un’ape più indistruttibile di Terminator.

Perché il conflitto primordiale con la nemesi imponderabile della natura è quello che tutti fatalmente ci attende al varco, più prima che poi, su questo pianeta. Filosofia spicciola, certo. Ma di questa materia è fatto il ground zero della comicità.

Dilatazioni iperboliche

L’empatia con il Demolition Man di Rowan Atkinson, redivivo a uso tv, ha a che fare con gli istinti luddistici in agguato nell’ultrassessantenne medio di fronte alle magnifiche sorti e progressive della civiltà occidentale. È la civiltà occidentale vista da fuori, alla giusta distanza, come nella battuta che una leggenda metropolitana attribuisce al Mahatma Gandhi, interpellato in proposito: «Perché no? Sarebbe una buona idea».

Molte trovate sono semplici dilatazioni iperboliche di canovacci precedenti. Il ketchup qui utilizzato per rappezzare un Mondrian rinvia all’albume rassodato col phon di un altro inestimabile quadro, il James Abbott McNeill Whitstler che era il perno di Mr. Bean-L’Ultima Catastrofe, anno di grazia 1997.

Da guastatori gentili, Tati e Atkinson, ognuno a suo modo ma con dinamiche simili, mettono in scena una trasgressione radicale degli status symbol e del potere arrogante di chi li ostenta. Per l’innocente che non possiede, l’aggeggistica di ultima generazione è un orizzonte ostile e insidioso. Non è lotta di classe, è una dimensione prepolitica, ma l’universo parallelo dei poveri è antinomico al consumismo elitario.

Non per invidia, ma perché ne denuncia la futilità. In questa chiave, l’ape – cioè il villain ufficiale, l’antagonista co-titolare della serie – ha la stessa funzione delle larve di mosca nei quarti di bue de La Corazzata Potemkin: è la miccia che scatena la rivolta.

In concorso

Il programma della Mostra di Venezia, edizione numero 79 ma novant’anni di età, è un altro caso di impossibilità di essere normale. È appena morto David Warner, il Morgan matto da legare di Karel Reisz (1966), massimo simbolo di resistenza politica del Free Cinema britannico. E sul mercato dei Festival a dettare le regole è l’azienda leader, cioè Cannes.

Le rigide regole che Cannes ha codificato a tutela del proprio primato sono diventate una gabbia. Il monopolio di un Gotha di autori di culto che snobbano le altre vetrine ha un prezzo: devi ospitarli in concorso anche quando sfornano pessimi film. Guidare la crociata contro la produzione delle piattaforme perché il cinema va visto di rigore in sala ha un prezzo: ti privi di ottimi titoli. Misurata con i codici suprematistici di Cannes, la mostra del Lido è un cane sciolto. Senza collare.

Ha un credo semplice e controcorrente: guarda l’oggetto-film e dice sì o no. Sono targati Netflix tre film in concorso al Lido, diversamente imperdibili: Blonde, di Andrew Dominik, atteso biopic di Marilyn Monroe con Ana De Armas, Athena di Romain Gavras (figlio di Costa-Gavras), che scatena una pirotecnica rivolta nella banlieue parigina, e Bardo, Falsa Cronica de Unas Cuantas Verdades, di Alejandro Gonzàles Inàrritu, viaggio sfrenato e fluviale nelle sue ossessioni d’autore.

Manca purtroppo l’ultimo Steven Spielberg di The Fabelmans, che sarebbe stato un colpaccio magistrale, ma Hollywood ha ufficialmente traslocato in laguna. Arriva in grande spolvero, a titolo di conferma, il nuovo ad dell’Academy appena insediato e batte bandiera Usa il film di apertura, White Noise di Noah Baumbach, dal cult di Don DeLillo.

I fuori concorso

Secondo i bene informati, le vere perle a stelle e strisce di Venezia 79 sono fuori concorso: Dead for a Dollar, ultimo monumento al western classico firmato dal veterano Walter Hill, e Master Gardener, crime thriller indipendente scritto e diretto da quell’ultraottantenne di genio che è Paul Schrader, uno dei Leoni d’oro alla carriera di quest’anno.

Troppi cinque italiani in competizione? Forse sì, ma non sono scontati. Il signore delle formiche di Gianni Amelio fa i conti col caso Aldo Braibanti e il clamoroso processo per plagio anni Sessanta. Bones & All di Luca Guadagnino si annuncia come il film più americano della mostra.

L’immensità di Emanuele Crialese rimette in gioco un autore scomparso dai radar da più di un decennio. Chiara, di Susanna Nicchiarelli, riscatta la santa dalla tradizionale subalternità a San Francesco.

Per far posto a Monica di Andrea Pallaoro hanno sfrattato dalla serie A Roberto Andò e il suo La stranezza, stuzzicante crocevia tra Pirandello e volti di norma incompatibili sullo schermo come Toni Servillo, Salvo Ficarra e Valentino Picone. Andò ha rifiutato la seconda fila che invece ha accettato Paolo Virzì con il suo ipercorale Siccità. Gli scivoloni sulla selezione italiana - lo sa bene Alberto Barbera, al timone per 14 anni, seppure non continuativi- sono quelli che Venezia paga più cari.

L’anno scorso non era in concorso Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, e si è gridato allo scandalo. Ma la casistica è lunga. Chi aspetta che si spengano i riflettori festivalieri per vedere quel che può in sala andrà sul sicuro con Argentina,1985 di Santiago Mitre, che ricostruisce con bella tensione l’inchiesta e il processo per i crimini della Giunta militare, e con la sorpresa di Les Miens, diretto da uno dei più popolari attori maghrebini d’oltralpe, Roschdy Zem.

È il primo caso di film francese che racconta una famiglia immigrata borghese, ricca e integrata. C’è Frederick Wiseman, eccelso documentarista in versione fiction, c’è Jafar Panahi fresco di arresto in Iran, ma non c’è l’assillo cannese delle grandi firme a ogni costo. La grande virtù della Mostra è l’impossibilità – maturata per gradi, in sordina – di essere normale. Qualcuno la chiama libertà.

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