Michel Franco: «Frustrazioni di un ballerino. I Dreams dei miei migranti»

Denaro, sesso, razzismo, ipocrisia e potere sono gli ingredienti di Dreams, radiografia di un sogno infranto firmata dal beniamino dei festival internazionali Michel Franco. Presentato in concorso all’ultima Berlinale, il nono film del regista messicano esplora con gelida precisione, inquadrature fisse e tagli netti, la passione velenosa tra una ricca mecenate di San Francisco (Jessica Chastain, che dopo Memory torna a collaborare con il regista) e un giovane ballerino messicano (Isaac Hernandez), emigrato clandestinamente. Un amore intriso di desiderio, dipendenza e interesse che non riesce a superare le barriere invisibili di classe, razza e nazionalità tra i due amanti. Una spietata metafora del muro di Donald Trump al confine Usa-Messico, al cinema dal 20 novembre con Fandango Distribuzione. Quanto è importante oggi dare un’identità, un’umanità, una voce e un corpo agli immigrati attraverso il cinema? Credo che il cinema sia un ottimo mezzo per dare voce agli immigrati. Bisogna smetterla di ingabbiarli in uno stereotipo e di decidere per loro quali sono i loro bisogni e dove dovrebbero stare. In Dreams racconto una storia diversa di immigrazione: il film inizia con un terribile déjà vu, quello di un camion stipato di esseri umani che ha attraversato le frontiere, ma ben presto la storia si allontana dalla drammatica rappresentazione che conosciamo e si concentra su un altro tipo di migrante: un ballerino che sogna una carriera internazionale e che, come molti altri artisti stranieri pronti a tutto pur di cogliere un’opportunità negli Stati Uniti, non riceve il riconoscimento che merita. Una scena di Dreams di Michel Franco (© Teorema)

[Missing Credit] C’è anche una storia d’amore “tossica” con una filantropa americana. Una donna bianca e viziata firmata Saint Laurent che rappresenta, immagino, il mondo occidentale. Si è ispirato a qualcuno per il personaggio interpretato da Jessica Chastain? È difficile dire esattamente a chi mi sono ispirato, immagino a molte persone che ho incontrato nella mia vita: gente ignorante riguardo alle altre culture e senza empatia. Sono persone che vogliono imporre la propria visione del mondo e che sono convinte che il denaro possa controllare tutto. Da messicano ne so qualcosa. Fin da bambino sono stato esposto a questa forma di “colonialismo”. La regista Riedinger: «I reality? Sono violenti ma ammiro le protagoniste. Il “male gaze” va decostruito» Anche da regista? Qual è il suo rapporto con l’industria cinematografica americana? In un certo senso sono fortunato di non aver mai avuto il sogno americano. Oggi lavoro con star come Jessica Chastain o Tim Roth, ma è successo perché sono stati loro a propormi di collaborare a dei film, non è qualcosa che ho cercato disperatamente. Ancora oggi preferisco girare i miei film in Messico. Colgo l’opportunità di lavorare con attori di grande talento, ma non lo faccio perché sogno di avere successo nell’industria americana. Sono anche produttore dei tre film che ho girato finora negli Stati Uniti, quindi, in realtà, sono io, insieme alla mia troupe messicana, a dare lavoro agli americani, e non sono impiegato da nessun studio hollywoodiano. Jessica Chastain, protagonista di Dreams di Michel Franco (© Teorema)

[Missing Credit] Il film affronta anche il tema dei rapporti di potere all’interno della coppia. Qual è il segreto dell’uguaglianza nella sfera intima? Potrò sembrare ingenuo, ma il vero amore non si basa sull’interesse o sul desiderio di cambiare o controllare l’altra persona. Nel mio film, invece, entrambi i personaggi si usano a vicenda. Purtroppo, questo accade quando l’amore viene messo alla prova, come in questa storia. Il regista Ari Aster: «Oggi è la realtà a far paura. Negli Usa non c’è più spazio per la comunicazione» Dreams è anche una storia di dipendenze: dall’amore, dal sesso, dal potere, dai sogni. È stato dipendente dal sogno di diventare regista? All’inizio credo di esserlo stato. Mi sono appassionato al cinema all’età di 14 anni, quando è uscito Pulp Fiction. Poi ho scoperto Los Olvidados (I figli della violenza) e tutti gli altri film di Buñuel, Il cielo sopra Berlino di Wenders e capolavori come Arancia meccanica di Kubrick. Per anni sono stato drogato di film, poi, col tempo, il cinema è diventato un modo di vivere e di relazionarmi con il mondo, e oggi occupa tutto il mio tempo. È la scrittura a impegnarmi di più, ma come diceva Charles Bukowski: «Trova ciò che ami e lascia che ti uccida». Il cinema è tutta la mia vita: se mi alzo nel cuore della notte per andare in bagno, riprendo subito a pensare alla sceneggiatura che sto scrivendo in quel momento. Tutti i miei amici lavorano o sono appassionati di cinema e, alla fine, anche se non vorrei, finiamo sempre per parlare di film. Tutto quello che vedo e che mi succede nella vita lo uso come potenziale materiale per una sceneggiatura. A volte lo faccio in modo inconscio, come per difendermi: se mi succede qualcosa di spiacevole, mi dico che forse non è così brutto e che posso usarlo per un film. Jessica Chastain e Isaac Hernandez (© Teorema)

[Missing Credit] Quanto è cambiato come regista in questi ultimi anni? È difficile da dire, immagino molto, ma credo che sia successo in modo casuale. Cerco sempre di girare il mio film successivo prima che esca quello precedente, perché voglio che nasca da una spinta interiore e non da una mia reazione all’accoglienza ricevuta dal mio ultimo lavoro. Detto questo, cerco sempre di rimanere in dialogo con il pubblico che amo sfidare. Ho avuto la fortuna di essere stato selezionato in grandi festival come Cannes, Venezia e Berlino, dove ho anche vinto dei premi, e questo mi ha dato visibilità, mi ha incoraggiato ad andare avanti e mi ha fatto sentire accettato. Non rivedo mai nessuno dei miei film: ognuno di essi riflette un periodo della mia vita. Cerco di fare un film ogni due anni al massimo, perché penso che il cinema sia frutto di un’urgenza personale: non ha senso scrivere una storia e girarla sette anni dopo, perché in sette anni si cambia. Perché è così ossessionato dal lato oscuro degli esseri umani? Non oserei dire di essere felice, ma sono sicuramente una persona positiva, amo le persone e continuo ad esserne incuriosito perché in fondo è anche un modo di scoprire me stesso. Credo che il modo migliore per capire chi siamo veramente sia quando siamo messi alla prova e, purtroppo, in determinate circostanze, più della metà delle persone tirano fuori il peggio di sé. Basta pensare alla storia umana: è una delusione dietro l’altra. Quando è uscito il mio film Nuevo Orden (Leone d’argento a Venezia 77), in cui raccontavo la violenza di classe in un futuro dispotico molto possibile, in molti si sono offesi per la rappresentazione dei messicani. Mi dicevano: «Non saremmo mai capaci di una tale crudeltà». Se ci penso, rido. Vogliamo forse dimenticare la sanguinosa rivoluzione messicana, le dittature in Sud America, le disuguaglianze sociali e razziali? La violenza fa parte del nostro passato e purtroppo è sempre in agguato. Fare film è un’attività molto positiva che cerca di riflettere su chi siamo, ma per riuscirci non bisogna scendere a compromessi: bisogna affrontare il lato oscuro dell’abisso umano e confrontarsi con il presente della nostra realtà. Kaouther Ben Hania: «Gaza non ha voce, volevo onorare quella di Hind Rajab» Crede davvero che i film possano cambiare la mente degli spettatori? Credo che possano stimolare una riflessione, un dialogo e aumentare la consapevolezza e l’empatia verso gli altri, una capacità che sembra scarseggiare sempre di più nel mondo. Il cinema ha sicuramente il potere di apportare piccoli cambiamenti e di portarti in nuovi territori, ma non credo che questo sia il suo scopo principale. Quello che mi interessa di più in un film è la forma d’arte, il linguaggio cinematografico e l’esplorazione dell’animo umano, non il messaggio. Come regista, sente di avere una forte identità messicana? Sono messicano, ma sono anche un mix di molte cose, come tutti, in fondo. Mio padre è nato a Juárez, da una famiglia molto povera, quindi conosco bene anche questa condizione sociale. Suo nonno è arrivato dalla Siria, come mia madre, che è ebrea, siriana e libanese per metà. Questo incrocio culturale è una fortuna che mi permette di sentirmi “a casa” in molte zone del mondo. Il cinema mi ha permesso, col tempo, di capire meglio chi sono e come continuo a cambiare. Non ambisco a realizzare il film perfetto, ma cerco di dare sempre il meglio di me, è come un’autoanalisi che riflette le mie preoccupazioni e i miei interessi del momento.