Da giorni è in atto l’ennesima shitstorm ai danni di Michela Murgia. Stavolta la scrittrice è messa alla gogna social per aver detto di sentirsi a disagio di fronte ad alcune frasi del generale Figliuolo che, nel descrivere il suo operato di commissario straordinario contro l’emergenza sanitaria, ha usato espressioni come «fuoco a tutte le polveri» e «nuovo fiato alle trombe». In moltissimi si sono scagliati in difesa del mondo militare in toto, additando la scrittrice sarda come una fanatica “pacifista” (in tono stranamente dispregiativo) che non ha rispetto per i nostri militari. La faccenda andrebbe derubricata come un passeggero imbarazzo vicario per chi si accanisce contro un’intellettuale – che poi, inutile negarlo, è lo stesso imbarazzo che suscitano le espressioni fuori tempo del commissario Figliuolo. Eppure, stavolta, è come se ci fosse altro. In questa sede non ho alcuna intenzione di analizzare se il metodo comunicativo di Figliuolo sia efficace o meno nell’ottica del piano vaccinale. Ciò che mi interessa è sottolineare quanto non ci sia nulla di sbagliato nel considerare spaventoso – o causa di disagio – un linguaggio del genere.

È come se il “popolame” dei social stesse negando, per amor di flame, un aspetto fondativo e innegabile della nostra società: i militari devono essere percepiti anche, e soprattutto, come una forza in grado di far abbassare la testa. Sono e devono essere la mano severa dello stato. E la conseguenza è ovvia: i militari parlano in modo assertivo, perché il timore reverenziale è un meccanismo necessario per creare ordine. E questo timore, di fatto, riescono a instillarlo nei cittadini.

Questa vicenda però mi ha fatto pensare anche a un’altra implicazione che conferma l’idea che il linguaggio militare sia per sua natura aderente all’azione e, non ammettendo oppositivo, violento – anche in forme sotterranee, che difficilmente ci si ferma a indagare.

Mio padre era un luogotenente della Guardia di finanza. Ma questa espressione è sbagliata. È più corretto dire che mio padre, per ottenere un salario fisso, svolgeva il mestiere di luogotenente della Guardia di finanza. Lui non era quella mansione, quel ruolo, quel grado: era invece uno studioso di storia, un fan dei Pooh, un appassionato di calcio. Visto il suo lavoro, io e la mia famiglia abbiamo vissuto per oltre dieci anni in un alloggio nella caserma dove mio padre prestava servizio. Accanto alla porta di quella che a tutti gli effetti consideravo “casa mia” era affisso un grande cartello giallo con il disegno di un uomo armato di fucile e una scritta: Zona militare. Divieto di accesso. Sorveglianza armata. A quel cartello non sono mai riuscito ad abituarmi e mi vergognavo a invitare da me gli amici o le prime fidanzatine. Era come se quel messaggio conferisse a tutta la mia vita domestica un senso di pericolo. Dalle pareti sembrava strisciare fuori una voce che diceva: «State attenti, rigate dritto, che qua non si scherza».

Non era, però, soltanto il cartello.

Trasformazione quotidiana

Mio padre detestava quel lavoro, ma provava a farselo piacere da così tanti anni che ormai aveva sommerso il suo disagio sotto un cumulo di posture, atteggiamenti e scelte linguistiche fedelmente allineate a quanto imposto dal suo ruolo. Se un superiore gli telefonava lui rispondeva dicendo non «pronto», ma «comandi» – e la schiena gli si raddrizzava, lo sguardo si fissava attento e sgranato verso un punto lontano, il collo rigido, la voce utilizzata soltanto per frasi di poche sillabe. Una volta chiusa la conversazione ritornava in sé in un modo quasi cinematografico. E di quel processo di trasformazione a cui era sottoposto ogni giorno, ciò che mi ha sempre lasciato realmente di sasso era l’aspetto linguistico. Le parole di mio padre quando non “faceva il militare” erano parole normali, a volte ricercate e precise, prese dai libri di John Grisham e Stephen King che amava.

Quando mi capitava di accompagnarlo in caserma mi ritrovavo ad avere paura di lui. Davanti agli altri colleghi infatti assumeva un tono diverso da quello con cui mi raccontava della sua adolescenza o dei suoi apprendistati sentimentali: espressioni novecentesche, timbro severo e quasi squillante, giudizi tagliati con l’accetta – ricordo la «lotta senza sconti» ai venditori di cd masterizzati illegalmente, o la necessità di «schiacciare la testa» ai ristoratori che non facevano scontrini. Il tutto in uffici grigi, colorati soltanto da uno stemma dannunziano appeso al muro: il disegno di una zampa di aquila con un forziere, circondato dalla frase Nec Recisa Recedit.

Negli ultimi tempi, quando tornava a casa dalle ore passate in divisa, mio padre era esausto. La voce gli si ripiegava in una morbidezza strana, ogni parola sembrava pesargli. Il suo scegliere di morire in quella caserma, utilizzando uno strumento di difesa personale offertogli dallo stato, ha forse una carica simbolica piuttosto densa. E io non posso non pensare che, se quel mondo fosse stato meno appesantito da una ragnatela di retoriche – linguistiche ed esistenziali – muscolari e così dedite alla perenne dimostrazione di un senso di superiorità, forse mio padre avrebbe sofferto di meno. Magari, addirittura, avrebbe vissuto di più.

Cosa succede ai militari, che per ruolo adottano un habitus così diverso da quello del quotidiano, quando devono incarnarlo nella vita vera? La risposta è che si crea in loro una sorta di cortocircuito. Per alcuni di loro, certo, non così problematico. Da una parte dello spettro c’è chi riesce a sovrapporre quasi del tutto il mestiere alla propria umanità, restando militare anche quando a tavola con la famiglia o facendo la spesa. Per moltissimi altri, invece, si verifica l’estremo opposto: la divisa è un lavoro senza la retorica della vocazione e si aspetta con ansia la fine del turno per tornare a essere ciò che si è davvero. Se teniamo in considerazione questa dicotomia (molto semplificata) è possibile rivedere in controluce anche la faccenda del linguaggio di poco sopra. La lingua militaresca (che, inutile negarlo, troppo spesso combacia con il linguaggio della guerra) è un aspetto della posa rigorosa e muscolare che, per statuto (e per contratto di lavoro) ogni individuo che serve lo stato in tale senso deve fare propria. E alcuni la abbracciano come un linguaggio proprio, altri la assumono come una medicina amara da buttar giù e che può logorare.

Il contesto repressivo

Il modo di parlare dei militari deve evocare azioni tenaci prescindendo dalla natura umana dell’individuo che, in un dato momento, veste la divisa – rendendolo poco più che una macchina esecutiva, meccanismo di un ingranaggio. Per questo si tratta di un linguaggio inquietante – spaventoso sì per il cittadino, non più abituato a ricevere una comunicazione bellica in uno stato democratico, e disturbante anche per chi, quel lavoro, lo svolge. «Da un uomo che viene da un contesto militare non ci si può che aspettare un linguaggio di guerra», ha detto Michela Murgia.

E, a mio avviso, ha ragione. Il meta-linguaggio militare è un codice: si colloca in un campo semantico che ha a che fare con l’inesausta azione verso una qualche vittoria. Questo non ha a che fare con la natura umana dei militari, i quali non sono quasi mai (si spera) per natura individui bellicosi o violenti. Ci obbliga piuttosto ad ammettere la natura repressiva di quel contesto – che deve sopprimere non solo il disordine, ma l’umano.

Sentire le parole di Murgia mi ha fatto sentire stranamente bene. Perché mi sono sentito rappresentato in quel disagio (che nel mio caso esonda nel dolore) di chi dalle parole vorrebbe ottenere forza, conforto, calore – e invece si scontra contro esortazioni, moniti, richiami a una tenacia che, sinceramente, è difficile non percepire quasi sempre come una sfiancante pantomima.

Che, alla lunga, finisce per fare del male a chiunque.

 

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