Che cos’è un canone culturale? Potremmo dire: l’insieme delle opere e degli autori in cui si riconosce una società. Oppure: l’insieme delle opere e degli autori che “hanno fatto” quella società. E già qui c’è una bella differenza. Inoltre qualcuno avrà notato qui il mio uso improvvido di un maschile sovraesteso: perché autori e non autrici, magari autorə o comunque si scriva in modo neutro?

Da tempo, infatti, si discute della presenza (o meglio dell’assenza) delle donne dal canone occidentale. Sfogliamo un’antologia di storia della poesia e troveremo una stragrande maggioranza di autori maschi. Per il Novecento spiccheranno in prima linea T. S. Eliot e Ranier Maria Rilke, Konstantinos Kavafis e Giovanni Ungaretti, Guillaume Apollinaire e Federico García Lorca. Lo stesso vale per la filosofia e per l’arte, per non parlare dei libri di storia della scienza e della politica. Uno squilibrio che si attenua soltanto a misura della modernizzazione della società, in quanto la mobilitazione totale della forza-lavoro abbassa le barriere all’ingresso per quei segmenti precedentemente esclusi.

La questione del canone, riprendendo le due definizioni sopra, si pone dunque in modo duplice. Il primo è di natura più politica: qual è l’effetto di questa sproporzione nel privare – oggi – le donne di modelli culturali di riferimento e quindi nel riprodurre le condizioni stesse della sproporzione? Ammettiamo che un canone più paritario tornerebbe utile: resta il problema che non possiamo tornare indietro nel tempo per cambiare quel che è stato. Se di teologhe medievali non ce ne sono, non possiamo farci nulla! Ma appunto c’è un secondo modo di porre la questione ed è storiografico: siamo sicuri che abbiamo costruito il canone in maniera corretta e che non ci siamo invece persi per strada qualche nome importante? A proposito di poesia, per capirlo potrebbe essere opportuno riaprire il caso di Mina Loy.

Il caso Loy

Mentre la Biennale di Venezia espone una sua opera del 1950 dedicata alla condizione femminile, Househunting, le edizioni Rina, specializzate nella riscoperta di autrici dimenticate, hanno appena pubblicato The Lost Lunar Baedeker, antologia degli scritti della poetessa datati tra gli anni 1910 e 1940. Ammirata dal più celebre Eliot e da tanti suoi contemporanei, il nome di Loy non appare tuttavia in nessuna storia della poesia. È dunque giunto il tempo di farle spazio?

Il poema che dà il titolo alla raccolta, Lunar Baedeker, evoca una guida turistica per la luna. Scritta nel 1923, giusto un secolo fa, inizia descrivendo un «Lucifero argentato che serve cornucopie di cocaina» e prosegue evocando un «gregge di sogni che perlustra la Necropoli».

Loy accumula assonanze e allitterazioni che suonano come ammennicoli che sbattono in un baule durante il trasloco di un antiquario satanista: «segnali stelletrici», «cicloni di polvere estatica di cenere turbinante», «oceani ogivali nell’Oriente ossidato», «odalische dagli occhi di onice e ornitologi».

Orientalismo e occultismo sono sicuramente segni dell’epoca, qui restituiti con una foga che ricorda le liriche di qualche band contemporanea di folk apocalittico. Colpisce infatti la paradossale attualità di questo bric-à-brac Belle Époque – piacerebbe alla cantante Amanda Palmer e sicuramente piace a Billy Corgan degli Smashing Pumpkins, che ha citato la poetessa in un suo pezzo. 

Abbiamo consultato sull’argomento Carmen Gallo, anglista alla Sapienza di Roma e traduttrice della Waste Land eliotiana. Secondo lei, «Loy tenta una strada originalissima nel panorama modernista: accoglie gli echi di tutti (Pound, Eliot, Moore) ma li rielabora usando la poesia per sovvertire valori morali e convenzioni di senso».  E cita come esempio i versi: «Le cose addomesticate / Non hanno immensità».

Futurismo femminista

La prima incursione di Loy nella poesia data del periodo futurista, 1914, con una serie di aforismi fulminanti: «Il futuro è oscuro solo dall’esterno. Saltaci dentro – ed ESPLODE di luce». Di quell’anno è anche il suo Manifesto femminista, il cui tono anticipa le formulazioni più estreme che verranno soltanto alla fine degli anni 1960: «Donne se volete realizzarvi… le bugie di secoli se ne devono andare – siete pronte allo Strappo? Non ci sono mezze misure – nessun grattare la superficie del cumulo di rifiuti della tradizione porterà Riforme, l’unico modo è la Totale Demolizione». Più estrema dello SCUM manifesto di Valerie Solanas, Loy proponeva «l’incondizionata rimozione chirurgica della verginità in tutta la popolazione femminile durante la pubertà».

Attraverso l’idea di una negazione assoluta del passato torna di peso anche la questione del canone. Non è d’altronde il sogno di ogni epoca di transizione quella di costituire un “anno zero” dal quale ricominciare la storia dopo aver fatto tabula rasa? Tentativo apparentemente fallito, quello di Loy, il cui nome è scomparso per un intero secolo.

L’interesse di Loy per certi temi associati all’esperienza femminile come la maternità, la prostituzione, ma anche la depressione e il ciclo mestruale, la rendeva indigesta alla critica. Eppure proprio nel levare il velo su queste verità del corpo sottaciute ha arricchito il canone letterario. Secondo Gallo, «fuori dallo spazio borghese delle élite moderniste, Loy parla con un linguaggio volutamente decorativo alle donne». E cita i versi: «In cerca della favola d’amore/ Che non si avvera mai / Sulla porta di casa». Versi che, ricorda Gallo, concludono una lettura dei tarocchi che parodizza quella famosa eliotiana di Madame Sosostris.

La sua poesia Parturition, sempre del 1914, descrive un’esperienza tanto comune quanto poco frequente in letteratura con parole chirurgiche come uno speculum: «Sono il centro/ Di un cerchio di dolore/ Che eccede i propri limiti in ogni direzione». E aggiunge più avanti: «Avrei dovuto vuotarmi di vita/ Per dare la vita».

Nella descrizione dell’esperienza del parto – la sua prima figlia Oda era nata nel 1903 – Mina Loy mescola apologia della «maternità eterna» e inquietanti visioni dell’inconscio come «l’immagine di una piccola carcassa animale/ Coperta di vespe». Immagine tuttavia “epicurea” poiché «attraverso gli insetti/ Mareggia quella stessa ondulazione di vita/ Morte/ Vita».

La costruzione sociale del canone

Anche il canone mareggia, basti pensare alla posizione che vi occupò per qualche tempo Gabriele D’Annunzio, oggi molto ridimensionato per quanto ci suona datato e ampolloso. Mina Loy lo scherniva già ai tempi, sotto il nome deformato di Danriel Gabrunzio: «Robotico culture di uccelli lirici… profuma di melodiose magnolie». O ancora: «L’arcangelo nazionale/ amo/ molte contesse/ in una vasca di tuberose/ allietata da un’orchestra/ al Majestic Palace Hotel».

Al posto dell’arcangelo Gabriele, Mina Loy merita dunque di entrare nel canone della poesia del Novecento accanto a Pound ed Eliot? Il dibattito è aperto. Lei forse commenterebbe con un suo aforismo futurista: «Il futuro è illimitato – il passato un sentiero tracciato da reazioni insidiose».

Certo Loy non ha avuto – perché non ha potuto avere – la medesima influenza che hanno avuto i suoi colleghi maschi, e il canone serve anche come archivio delle influenze. Ma le grandi crisi di civiltà portano anche al rinnovamento del canone, e non c’è dubbio che stiamo vivendo una simile crisi di civiltà. Resterebbe da capire se Loy sia precisamente l’autrice di cui ha bisogno il femminismo oggi, o se il suo misticismo differenzialista –  «Permetteteci di fidarci dei nostri istinti» – non suoni paradossalmente più reazionario di altri.

Costruire un nuovo canone culturale non è un pranzo di gala. Perché negoziando su cosa ci rappresenti, e su cosa ha fatto di noi quel che siamo, si tratta di riaprire dei conflitti memoriali oramai sopiti: zitto zitto persino il fascistissimo Ezra Pound ha il suo posto al sole nel pantheon novecentesco. Almeno fintanto che nessuno ne posterà le pagine su Instagram. 

Più probabile che un nuovo canone non esisterà più, perché mai più riusciremo a metterci d’accordo su una rosa di nomi che vadano bene a tutti. Quanto a Mina Loy, forse non entrerà mai in un canone ma oggi ha finalmente il suo posto (alla luna) nel pantheon esploso, frammentato e disseminato della multicultura del Ventunesimo secolo.

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