Chi, come me, volente o nolente nacque con un pene, avrà sentito dire almeno una o infinite volte nella vita che «le dimensioni non contano» – ma piuttosto, con sporadica metafora edile, che «non è importante quanto è lungo il chiodo bensì come batte il martello»: all’aurora dei trent’anni posso dire con certezza che la cosa è vera solo in parte – per quanto già le mie compagne del liceo, le più disinibite, costatavano che è il diametro che conta, e non la lunghezza: come peraltro è emerso dalla ricerca pubblicata di recente dall’urologo Nicola Macchione, che ha coinvolto più di 6mila soggetti fra donne e uomini, etero e non.

Quando le dimensioni contano

Anzi: a trentatré anni posso dire che la metafora è quasi completamente errata, perché altrimenti non si spiegherebbe come mai nei siti mainstream del porno esista la categoria big dicks ma non quella small, e come mai sulle piattaforme di escort ci sia la sezione XL e oltre e su Grindr, su Twitter e gli altri social che lo consentono, alcuni utenti si chiamino hung, che significa appunto dotato – con saltuaria specificità centimetrica – e nessuno invece M o S o XS. Che poi in realtà qualcuno che mette la XS nella bio c’è, perché la realtà è sempre più fluida e varia di quello che ci raccontano e ci raccontiamo: ma usciamo appunto dal mainstream e – se non si tratta di candida sincerità – sfociamo quasi sempre nel fetish.

Si chiama small penis humiliation (sph), per esempio, quel piacere erotico (di cui comunque il porno è pieno, etero e non) che deriva dal sentirsi dire che il proprio pisello è inutile, troppo piccolo, incapace di soddisfare il o la partner, a prescindere dalle sue effettive dimensioni; in molte circostanze (del porno) arriva in soccorso qualcunə di prestante, che s’infiltra nell’atto sessuale e prontamente fa godere chi domina – mentre l’umiliato e offeso se ne resta in poltrona a guardare, ricevendo le solite mutande in faccia e prendendo il nome di cuckhold.

Ridotti a falli

Sorvolando sul lessico (ne parlava un libro di Carlo D’Amicis, Il gioco, che per questo fu sfilato dal Premio Strega giovani), di frasi come «sotto i 20 cm sono clitoridi infiammati» ne ho sentite dire molte, quasi mai dentro alla SPH e quasi sempre fra i maschi gay: su Grindr abbondano nick del tipo Only for big, XXL da venerare, fino a sistemi a quattro incognite come «gradisco che altezza + bligo faccia più di 195 e che età + peso faccia meno di 105» (trascrivo alla lettera: conservo ancora questo screen).

Sorvolando anche (ma solo momentaneamente) sulla body positivity del calcolo, non si può certo accusare questi utenti di insolenza: pure Eva Robin’s, in una fallocentrica intervista dell’agosto 2013 da Victor Victoria, prima propinò la tiritera «l’amore non è una questione di centimetri», poi affondò: «ma uno in più aiuta sempre».

A farci sapere, sul versante opposto, che però anche i dotati piangono, ci ha pensato l’attore porno gay Calvin Banks, classe 1997, 8 pollici e mezzo di pene ossia più dei nostri 21 cm: sul canale YouTube di Davey Wavey, a giugno 2020, raccontò gli svantaggi delle erezioni spontanee: «Ho un’erezione ogni volta che c’è turbolenza su un aereo, un po’ come se mi bollisse; potrei metterlo lungo una gamba dei pantaloni, ma si vedrebbe comunque il contorno». In un lampo di lucidità fra dubbie argomentazioni, Wavey ammonì chi dimentica che questi lunghi peni sono attaccati a esseri umani, che in certi casi sono considerati solo grandi falli: «Essere trattato come un fallo però», dice Banks, «non infastidisce tutti, ad alcuni sta bene così».

Superdotati da museo

Non è tra questi Willie Jordan, il «cazzo più grande di Newcastle», come fu definito da Men’s Health – oggi un quarantenne che si pente di averlo fatto vedere a chiunque gliel’abbia chiesto, vent’anni fa; «Tiralo fuori!» continuano a urlargli pure mentre è al bar: le groupie cercano di toccarglielo, i ragazzi gli propongono di andare a letto con le proprie fidanzate – e stiamo parlando di circa 28 centimetri. Un numero ovviamente fuori dalla norma, che secondo i dati del Journal of sexual medicine dovrebbe limitarsi a stare fra i 3,5 e i 4 pollici di un pene a riposo e fra i 4,5 e i 6,5 di un’erezione; più si sorpassa quel 2 per cento di persone che vantano dai 20,5 cm in su (fonte: Brian Steixner, direttore medico di urologia presso la Barton Health), più si rischiano incidenti come la rottura di una ciste ovarica durante un rapporto, varie infezioni nel tratto urinario, l’impossibilità di inginocchiarsi o di correre o di indossare una divisa – e quindi in certi casi di lavorare.

Queste, in particolare, sono alcune delle conseguenze dei 48 centimetri di pene di Roberto Esquivel Cabrera, l’uomo che si considera il più dotato al mondo e che i medici continuano a pregare di sottoporsi a un intervento di riduzione. Ma «il suo pene non è veramente di 19 pollici!», lo accusa un altro superdotato, Jonah Falcon: «Io sono nato con 34 centimetri, lui ha barato allungandosi costantemente il prepuzio». Falcon – la cui dote finirà al Museo fallologico islandese – ammette: «Quando avevo vent’anni ero come un bambino in un negozio di dolci; se un ragazzo potesse far sesso quasi con chiunque voglia, lo farebbe sicuramente». E torniamo dunque al postulato: le dimensioni non contano?

Una preoccupazione da maschi

«Invece contano eccome, soprattutto quando sono minime», scrisse qualcuno in una lettera anonima pubblicata da DeAbyDay. Un esempio recente di penis shaming è l’affaire Zaccagni-Nasti-Zaniolo: l’influencer Chiara Nasti e il giocatore della Lazio Mattia Zaccagni diventeranno presto genitori, ma durante i festeggiamenti della Roma è partito il coro «il figlio della Nasti è di Zaniolo», – nonostante la ragazza e Nicolò non stiano più insieme dal 2021.

Interrogata sul fatto, lei replica (ma poi cancella il commento): «Mmmm che con quel gamberetto non si sa come già ne abbia avuto uno»; il termine gamberetto ha subito fatto il giro del web, riportando alla luce uno studio olandese secondo il quale solo per l’1 per cento delle donne le dimensioni del pene sono «molto importanti» – mentre per il 20 per cento «potrebbero esserlo».

Il dibattito infatti è quasi tutto maschile, come d’altronde lo è la sindrome da spogliatoio altrimenti detta dismorfofobia peniena – una versione “per adulti” della gara a chi ce l’ha più lungo (e quindi, di conseguenza, più corto); non a caso questo articolo è stato scritto da un uomo, nella cui testa rimbomba un altro motto di Eva Robin’s che metterebbe a tacere ogni argomentazione – e su cui si potrebbe scrivere un saggio intero: «meglio avere una pistola che diversi foderi».

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