Nel 2015 la Vivienne Westwood Ltd. gestiva direttamente 63 outlet del brand in giro per il mondo: nove in Cina, nove a Hong Kong, diciotto in Corea del Sud, sei a Taiwan, 2 in Tailandia, due negli Stati Uniti e dodici in UK. Per chi non lo sapesse un outlet è un negozio monomarca, di solito in una zona decentrata della città o in un centro commerciale, in cui vengono venduti a prezzi scontati i prodotti del brand che difficilmente si riescono a vendere a prezzo pieno.

In quel tempo peraltro la Latimo, che aveva il controllo sull’uso del marchio ed era di proprietà di Vivienne Westwood stessa, aveva sede in Lussemburgo, noto paradiso fiscale, da cui, dopo anni di alleggerimenti di tasse, sarebbe tornata verso casa ammettendo che la gestione fiscale delle sue entrate era stata poco trasparente e pagando una salata multa.

Ad oggi le collezioni di Vivienne Westwood hanno una distribuzione non esattamente esclusiva (si trovano anche su Zalando), sul suo sito si trovano borse da 540 Euro dalla provenienza non specificata o dei braccialetti dorati a 110 Euro con il caratteristico logo della corona, anche questi di provenienza non specificata.

Il fatturato totale del marchio inglese è stato nel 2020 di 42,14 milioni di Sterline con un margine di 2,89 milioni di Sterline.

Una leggenda

Diciamo tutto questo perché tutti sanno (o dovrebbero sapere) che Vivienne Westwood è la leggendaria inventrice del punk, la designer di moda inglese che più ha strutturato l’idea anticonformista, antigovernativa e, più recentemente, attivista che il mondo ha della moda inglese e forse dell’Inghilterra stessa.

La storia dice infatti che, da ragazzina appartenente alla classe operaia, riesce, insieme a Malcolm McLaren che diventerà il manager dei Sex Pistols, ad aprirsi la strada del successo e del riconoscimento mondiale a partire dagli anni ’70, in un negozietto in King’s Road chiamato Sex che si trasforma presto nel centro eruttivo di uno dei movimenti di protesta più estetizzanti della storia.

Il punk non è solo una delle subculture più storicamente note ma è anche il punto di partenza di una lunga carriera che porterà Vivienne Westwood a scolpire nella pietra un metodo di lavoro che non ha precedenti: la profonda conoscenza della storia del costume si interseca con istanze politiche e femministe rendendo la moda un potentissimo mezzo di analisi sociale e un momento di riflessione su questioni profonde che, soprattutto nel lungo decennio degli anni ’80, vengono dimenticate.

Senza la legittimazione della forza comunicativa in ambito politico che ha compiuto Vivienne Westwood sulla moda, non sarebbero esistiti né John Galliano, né Alexander McQueen ma soprattutto è difficile pensare che sarebbero potuti esistere molti brand emergenti in tutto il mondo che ad oggi accolgono l’attivismo come elemento fondante della propria narrativa.

La minicrini, per fare un esempio, è una rivisitazione delle lunghe e pesanti crinoline settecentesche che costringevano le donne fino al soffocamento a cui è stato tagliato via mezzo metro di lunghezza, rendendole oggetti di seduzione e di divertimento. I corpetti steccati, altro simbolo della sottomissione femminile, diventano con Westwood, dei leggeri ornamenti riccamente stampati con dipinti barocchi che ricordano a tutti come sia possibile ribaltare un’incontrovertibile dato storico per trasformarlo in un’arma di lotta sociale.

L’eredità

L’eredità di Vivienne Westwood si è ben sedimentata nella storia della moda contemporanea e ancora oggi riferimenti al suo lavoro sono visibili su molte passerelle ma, allo stesso tempo, il marchio ha invece percorso un cammino di involuzione e mentre le affermazioni pubbliche di Vivienne sono diventate sempre più anti sistemiche, il business è stato traghettato verso una clientela di millenial che cercano oggetti vistosi a poco prezzo senza particolari qualità narrative.

Tutto è cambiato definitivamente nel 2008 quando la madre di ogni approccio superficiale alla moda, Sarah Jessica Parker aka Carrie Bradshaw, ha indossato un abito da sposa di Westwood nel primo film tratto dalla serie Sex and The City. In una delle scene più iconiche del personaggio più vittimista della storia della televisione la nostra eroina viene abbandonata dal marito promesso Big sull’altare del loro matrimonio. Da quel momento, mentre Westwood redigeva un Active Resistance to Propaganda contro consumismo e climate change, il marchio subiva una metamorfosi profonda passando da rappresentare valori di resistenza politica a meccanismi di mercato che prevedevano borsette molto colorate fatte in Cina.

Come ho detto, qui nessuno vuole contestare il gigantesco valore storico del lavoro di Westwood né tentare di demitizzarne la figura, ma è bene riflettere sul fatto che fare militanza all’interno di una cosa che si chiama sistema capitalistico (di cui Vivienne professava la fine) rimane una questione piuttosto spinosa. Tutti gli articoli, i post e i Tweet apparsi Giovedì scorso, il giorno della sua morte, ne celebrano indefessamente la sua carica rivoluzionaria, il suo spirito anti sistema, il suo carattere fortemente politico dimenticando, grazie ad un classico esempio di dissonanza cognitiva, cosa è in realtà diventato il marchio oggi.

Vivienne Westwood è l’esempio di come da un grande talento derivi una grande responsabilità e quanto sia difficile portare nella realtà del mercato proclami giusti ma utopistici, facili da verbalizzare ma complicatissimi da rendere concreti. Questo non è solo un problema della moda ma di chiunque voglia avere un approccio politico alle cose, dagli attivisti ai politici stessi, dalle Sardine ai Cinque Stelle, tutti quelli che hanno ideali altissimi e attraverso di loro conquistano credibilità ma quando poi si trovano ad agire tentando di applicarli al mondo, scoprono che la questione è estremamente complessa.

E questo non vuol dire che sia impossibile trovare un punto di incontro tra capitalismo e giustizia sociale e approccio etico ma significa che chi ha portato per lungo tempo la bandiera della contestazione e della ribellione dovrebbe occuparsi molto da vicino del modo in cui sono prodotte le proprie borsette di nylon e del modo in cui viene gestita la politica fiscale dell’azienda.

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