Quella faccia da malandrino simpatico, con l’ironia piantata nello sguardo e l’aria un po’ allarmante se l’è portata dietro per una vita. Artisticamente parlando, si capisce. E ne ha fatto un mito o, come piace dire, un’icona. Del cinema francese e non solo. Perché Jean-Paul Belmondo, che ci lascia ottantottenne e senza parole, è andato oltre il cinema ed è entrato il quella dimensione tutta speciale delle leggende capaci di transitare nell’immaginario di ciascuno tra lirismo ed epicità, parole smisurate e soffi di voce. Insomma l’essenza del cinema cui quest’attore bislacco e monumentale ha regalato un ritratto non cancellabile, al di fuori di ogni rituale retorica.

Ottanta film, il primo dei quali – era per la verità un corto semisconosciuto intitolato Molière – l’ha ospitato giusto 65 anni fa e certo non ha lasciato una grande traccia. Quella che invece, in un concetto collettivamente riconosciuto nella sfera della consacrazione, ha inciso nel 1960 con À bout de souffle, dunque Fino all’ultimo respiro, dunque Jean-Luc Godard, perciò Nouvelle Vague. Con gli echi del cinema nero americano trascolorati in modi favolistici e riversati in una ricerca spiazzante e “altra” sul linguaggio cinematografico: nel segno di una rinnovata libertà narrativa svincolata dalle sintassi convenzionali. Eccolo, Belmondo, furfante marsigliese nei panni di Michel Poiccard e insieme di Lazlo Kovács, diretto a Parigi alla guida di un’auto rubata prima di incominciare una fuga che durerà per tutto il film dopo aver ammazzato un poliziotto.

È l’alba di un’epoca aperta e liberissima, nella quale questo attore irregolare e a suo modo stupefacente si è mosso con la virtù dell’agilità espressiva, approdando a Godard subito dopo aver affiancato un anno prima Chabrol e nello stesso anno Vittorio De Sica ne La Ciociara del ’60. Dunque il noir. Riarrangiato, rovesciato o ripercorso nella sua struttura elettrica: Belmondo se lo è ritrovato subito sulla strada con Jean-Pierre Melville in due prove importanti come Léon Morin, prete del ’61 e Lo spione del ’62 senza che il genere lo consegnasse ad una maschera irreversibile. Anzi quasi subito modificata in quella d’un marinaio livornese in Mare matto di Renato Castellani nel 1963 prima di tornare lo stesso anno con Melville ne Lo sciacallo.

Da allora, Belmondo ha trovato il suo spazio divistico e lo spirito aspro per andare oltre i luoghi comuni proiettandosi in una carriera costruita in eguale misura sulla qualità recitativa e il consenso popolare: lasciando più di un segno ne L’uomo di Rio di Philippe de Broca nel ‘64 seguito da L’uomo di Hong Kong nel ’65 e, clamorosamente, in Borsalino di Jacques Deray nel ’70, con l’altro monumento Alain Delon.

Sulla sua strada, nel ’74, c’è stato anche Alain Resnais con il meno memorabile Stavisky il grande truffatore prima di un nuovo bagno nel poliziesco e nelle esperienze diversificate con i suoi autori privilegiati come Deray e de Broca oltre i grandi Henri Verneuil, Georges Lautner e Philippe Labro, Agnès Varda, Claude Lelouch, ancor prima il François Truffaut del delizioso La mia droga si chiama Julie del ’69. Genere bellico, commedia e sentimenti.

Poi l’ischemia cerebrale del 2001, il recupero faticoso e il ritorno al cinema, altrettanto faticoso, in una riedizione francese di Umberto D. intitolata Un homme et son chien – Un uomo e il suo cane di Francis Huster. Naturalmente sono arrivati i premi prestigiosi: la Palma d’oro alla carriera al Festival di Cannes, il Leone d’oro alla carriera alla Mostra di Venezia. Da ricordare come i suoi amori: la ballerina Élodie Constantin sposata nel 1952, Ursula Andress, Laura Antonelli, Natty Tardivel quale seconda moglie, Barbara Gandolfi. Molti legami, sentimenti larghi e profondi. Il fascino non gli è mai mancato.

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