Vittorio Gassman interpretando Bruno Cortona ne Il sorpasso di Dino Risi aveva Brigitte Bardot sul cruscotto della sua Lancia Aurelia che gli intimava: «Sii prudente a casa ti aspetto io», doppia ironia perché oltre la distanza sentimentale di Cortona dalla Bardot c’era che l’altro attore, Jean-Louis Trintignant, era stato davvero suo compagno nella realtà, ma finiva per invidiare quel sentimento inesistente come Roberto Mariani personaggio del film.

Chissà se oggi un pilota di moto come Giacomo Agostini invidia il rapporto che hanno i nuovi piloti che non potendosi portare la Bardot in moto fanno e si portano i figli sul podio, nel paddock, come se le corse non fossero più lo spazio dove la morte si sente più forte, ma un comune hub aeroportuale dove il papà fa qualche giro – in cielo e in terra – ad alta velocità e poi torna per tenere i figli in braccio mentre la mamma si riposa.

Dove un tempo era tutto James Dean ora c’è Mrs. Doubtfire. Ciao vita da Steve McQueen, ciao stile di James Hunt. Dove c’era l’esibizione da torero e il machismo hemingwayano che generavano pensieri lubrichi – come diceva Francesco Guccini – oggi ci sono i pannolini da cambiare come un tempo le gomme, e la frase di Enzo Ferrari, che tutti ripetevano come un mantra appena c’era la notizia di una storia d’amore con prole: «Un pilota perde un secondo a giro a ogni figlio che gli nasce», è stata pensionata.

Ora c’è il rischio che il pilota abbia un figlio da cambiare a ogni stagione. A Silverstone, l’altro giorno, il pilota Aleix Espargaró è salito sul podio con i figli Max e Mia, gemelli, cinque anni. Qualche settimana fa è nata Blanca, la figlia del pilota Maverick Viñales. È papà anche Miguel Olivera, di Alice, un anno e mezzo. E forse il precursore è stato Cal Crutchlow che si lasciò fotografare con la figlia addormentata sul petto mentre faceva i massaggi.

Come eravamo, come siamo

Il rischio può aspettare. Giacomo Agostini divenne papà solo dopo il ritiro. Valentino Rossi a cavallo dell’addio, e a sedici mesi, Giulietta – con suo padre a farle da navigatore commentando: «Non penso che farà la ballerina» – era già su una minimoto. Perché è proprio il cambio delle moto, dall’elettronica agli pneumatici, che ha consentito questa svolta.

Le moto non sono più cavalli selvaggi che bisognava domare, ma mezzi sicuri, dove conta sempre il manico, ma con più certezze e meno sforzo, e dove anche i papà possono correre e le mamme e/o le Brigitte Bardot non devono intimare la prudenza, perché basta passare per i box dove insieme ai meccanici ci sono i bambini e il pensiero che tornare è meglio che vincere.

Tanto che solo uno come Marc Márquez può applicare il rugby alla MotoGp e spingere, spallare, pressare, marcare, e soprattutto cadere, apparendo come una anomalia, forse perché è l’ultima espressione del pilota assolutista che non pensa a nessuno, spesso nemmeno a sé stesso, andando in pista con uno stile aggressivo e strafottente. Forse più che la disciplina al suo essere pirata serve un figlio.

Márquez sembra correre in mezzo a tanti Nanni Moretti che come lui in Aprile antepongono la nascita dei loro Pietro alla vittoria della sinistra, e quindi «quattro chili e duecento grammi» piuttosto che il record della pista.

Quello delle moto e delle corse è uno dei pochi casi in cui la tecnologia non genera una disumanità, ma un nuovo tipo di padre. Dove, fuori dalle piste, uomini sedentari rifuggono il rischio di diventare padri, per un paradosso, dentro le piste uomini superattivi aggiungono la paternità ai rischi delle corse, che non sono scomparsi, ma forse con un bimbo nei pressi sono più dolci o semplicemente rimossi meglio.

È come se avesse vinto «il pensiero felice» che in Hook, film di Steven Spielberg, permette a Peter Pan di tornare a volare, e quel pensiero felice sono i suoi figli. Il momento in cui Trilli – che poi è Julia Roberts – aiuta Peter Pan a cercare quel pensiero per poi rimetterlo in volo, è uno dei più commoventi del film, anche perché Peter Pan è Robin Williams, l’unico adulto credibile nella parte. E per metà film è un avvocato aziendale di San Francisco che non ha tempo per la sua famiglia, ed ha bisogno della sottrazione dei suoi figli per prenderne coscienza, come ai piloti servono i figli per rimuovere l’incoscienza.

In Messico, in maggio, è uscito La figura del mundo (Random House) di Juan Villoro, uno dei maggiori scrittori dell’America Latina, che analizzando la vita di suo padre Luis, filosofo messicano-catalano, racconta anche le difficoltà d’essere figlio di un pensatore.

L’incipit è la frase che gli dice in aeroplano – sospesa in aria la gente è propensa a confessarsi chissà se si raccogliessero i pensieri in pista – la vedova di uno scrittore: «Los intelectuales no deberìan tener hijos – gli intellettuali non devono avere figli», naturalmente non ha nulla a che vedere con i rischi dei piloti ma con la tirannide delle passioni. Ma il tema c’è.

La paura

Sono meno appassionati i piloti di oggi? Oppure, sentendo la sicurezza crescere, accelerano sulla paternità? Lo scopriremo nei prossimi anni, se il numero di padri che corre in moto si moltiplicherà.

Dove l’incertezza esistenziale indossava la tuta e proprio per questo tutto era consentito, la contiguità col rischio faceva invocare, in azioni opere e pensieri, a Renzo Pasolini (1938-1973) il tutto e subito, ma non gli impediva di diventare padre, anche se negli anni di stop dovuti al servizio militare, non rallentandone però le corse successive né limitandone lo stile, tanto che dopo una caduta a Jerez a sua moglie Anna che gli chiedeva: «Non ti spaventi quando vai per terra? Adesso hai anche una famiglia». Rispose: «Se avessi paura, non correrei». E non aveva paura né figli Jarno Saarinen (1945-1973) ma ne voleva diversi come ha raccontato sua moglie Soili Saarinen, ma per averne aspettava la fine delle corse che non arrivò, perché il pilota finlandese morì con Pasolini a Monza in un incidente di gara.

Ma forse il senso di tutto sta nella storia di un altro grande pilota, Mike Hailwood, nove mondiali vinti, pilota anche in Formula Uno, due figli solo dopo il ritiro, Michelle e David, con l’attrice e modella Pauline Barbara Nash, che muore a quarant’anni in un incidente, ma non in pista.

Mike stava guidando la sua Rover sulla statale A435 nei pressi di Birmingham quando in una curva cieca si ritrovò un camion che faceva inversione a U, nell’impatto perse la vita e con lui sua figlia Michelle, mentre David ebbe solo ferite lievi, stavano andando a comprare fish and chips per cena. Erano l’espressione massima della normalità familiare.

Solo che l’auto era guidata dall’uomo che aveva corso più rischi dell’intera sua generazione, o era “solo” quello che lo sapeva.

Le corse rimangono pericolose e gli incidenti facili, tanto che la storia di Hailwood fa pensare a un semplice bonus rischio che figli o no, nella sua incostanza come ogni vita, una volta esaurito genera l’incidente, quello che è cambiato è il pensiero della morte.

Pensiero riassunto in Robocop nella scena dove l’agente Anne Lewis morente dice a quello che è diventato Robocop, Alex Murphy: «Sono a pezzi». E lui risponde: «Ti aggiusteranno… Aggiustano tutto loro».

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