Uno dei pezzi di musica strumentale più belli ed eseguiti degli ultimi cinquant’anni è stato scritto nel 1977 dal compositore estone Arvo Pärt, oggi un uomo di 86 anni dall’aspetto vagamente monacale, la lunga barba, lo sguardo calmo e meditativo.

A dispetto della sua apparenza frugale, Pärt è una delle personalità decisive e più influenti della musica classica contemporanea. Il brano si intitolava Fratres, fratelli. È ideato per voci distinte che vanno intrecciandosi mano a mano senza indicazione precisa di strumenti, anche se la prima versione è quella per orchestra d’archi e percussioni. È un brano di splendente chiarezza e forza espressiva.

La versione più nota, un vero bestseller discografico pubblicato nel 1980 dall’etichetta tedesca ECM, è quella per violino e pianoforte. Non un violino qualunque. Pärt infatti scrisse la versione appositamente per lo strumento del lettone Gidon Kremer (al piano c’era Keith Jarrett), all’epoca un trentatreenne magro, timido, i grandi occhiali squadrati, che Herbert Von Karajan aveva definito: «Il più grande violinista del mondo».

Viaggio nel tempo

Intendiamoci: di grandissimi violinisti ce ne sono molti, ieri come oggi: certamente Kremer è uno di loro, non solo per la tecnica eccezionale e il suono vitale e profondo, ma anche per l’eclettismo che ha guidato le sue scelte interpretative, vastissime, e che adesso possiamo ripercorrere grazie a un cofanetto di 21 cd che la Warner classics pubblica mettendo insieme registrazioni a partire dagli anni Settanta.

Un esempio? Il disco registrato a Monaco nel marzo del 1979 con il pianista Andrej Gavrilov che si apre con il festoso Grand duo concertant di Carl Maria von Weber, contemporaneo di Mozart, prosegue con la Sonata per violino Op 11 di Paul Hindemith (1895-1963) e la Sonata N° 2 di Alfred Schnittke (1934-1998), la cosiddetta “quasi sonata” – venti tempestosi minuti che sostengono un unico movimento – per poi chiudere con il brevissimo Andante con variazioni di Gioacchino Rossini (1792-1868).

Kremer compie, con il suo violino, un viaggio nel tempo tra concezioni diversissime della musica – lo stile classico di Weber, che compiace l’orecchio e tende all’emozione – fino alla depistante e completamente anti-sentimentale sonata di Hindemith, il figlio di un operaio secondo il quale la bellezza del suono non aveva alcuna importanza.

Tra i due pezzi non pare sia trascorso poco più di un secolo, ma un’era geologica intera. Kremer li infila uno dopo l’altro, perché l’idea è quella di non trovare nella musica delle risposte alle nostre certezze, a ciò che ci piace. Bensì il contrario: trovare, se possibile, delle domande, degli interrogativi che sono gli stessi del fluire del tempo e delle contraddizioni della vita. 

Musica come salvezza

Figlio di una violinista e nipote di un violinista, nato a Riga quando ancora la capitale lettone era sotto la ferrea influenza sovietica, Kremer fu praticamente obbligato dal padre, ebreo sfuggito alla deportazione nazista e anch’egli violinista, a studiare il violino.

«Gidon, nato nel 1947 e cresciuto sotto l’ombra lunga della guerra, detestava suo padre. Non era un odio spaventoso o feroce, ma qualcosa di simile a un dolore fastidioso e incessante» racconta lo scrittore olandese Jan Brokken nel suo celebre reportage narrativo Anime Baltiche (Iperborea). «La musica per lui era puro esercizio» racconta ancora Brokken, «Non si lasciava mai trasportare, non si permetteva di trarne piacere. L’unica eccezione era quando, violino sotto il mento, suonava passando davanti ai ballerini e ballerine per dare la cadenza. A Riga la scuola di musica e quella di danza erano nello stesso edificio…».

Tra quei ballerini, tra l’altro, c’era un giovanissimo Michail Barysnikov, lettone anch’egli. E anche lui destinato, come Kremer, a fuggire all’estero anni dopo. La formazione del violinista avviene sotto l’ala di David Ojstrakh a Mosca, finché vince il concorso Caikovskij. Secondo Brokken questo è il momento in cui Kremer esce dell’ombra paterna e scopre il piacere di suonare, non più come risarcimento ma come salvezza.  

Nel 1980, scappato dall’Unione Sovietica, Kremer si stabilisce a Monaco di Baviera e Brokken lo ascolta in duo con la pianista argentina Martha Argherich. Scrive: «Da quel momento comprai tutti i dischi di Gidon Kremer a prescindere dal repertorio. Scoprii l’opera di Arvo Pärt, musica religiosa in largo anticipo sui tempi, se si pensa che negli ultimi dieci anni in Russia sono state costruite 10mila chiese…». E quindi descrive il suono che ascolta: «Lo stile di Kremer è disadorno, a volte perfino un po’ asciutto, come se il musicista non volesse concedersi alcuna frivolezza, ma si addice alla perfezione ai pezzi che interpreta. Nella scelta del repertorio è spesso un pioniere». 

Un pioniere, certo, ma anche un incessante esploratore dei classici: lo vediamo dalla collezione che abbiamo in mano adesso. Con Karajan interpreta Brahms, con Nikolaus Harnoncourt il sublime Concerto in Re maggiore di Beethoven, con Riccardo Muti il virtuosistico Concerto del finlandese Sibelius, con la Argerich al piano affronta Robert Schumann e Béla Bartók. Del compositore ungherese, geniale alchimista delle tradizioni popolari dell’est, ascoltiamo anche la Sonata per solo violino 117. Scritta nel 1944, un anno prima della morte, e interpretata per la prima volta da Yehudi Menuhin, è la vertiginosa porta di accesso a una modernità che riassume la forza del Novecento musicale e, come dice Brokken, perfettamente adatta alla maniera «asciutta, disadorna» di Kremer.

Ispirarsi ad Arvo Pärt

Un ideale di asciuttezza – verrebbe da dire di purezza – che non poteva che officiare il suo incontro con Arvo Pärt, il quale così ha descritto la propria idea di composizione: «Volevo una linea musicale che fosse portatrice di un’anima, come quella che esisteva nei canti di epoche lontane, come è ancora oggi nel folclore: una monodia assoluta, una nuda voce dalla quale tutto ha origine».

Pärt non è cresciuto nella capitale lettone, Tallin, ma nella periferia del paese, a Ravkere, un posto quasi sperduto dove l’unica industria era quella della carne, con una piazza e un castello. Arvo cresce solo, inizia a comporre guardando alla dodecafonia di Arnold Schönberg, viene osteggiato e criticato dal regime sovietico, ha una lunga parentesi spirituale e riemerge, alla fine degli anni Sessanta, con la sua musica minimalista di ispirazione sacra, la cui apparenza è essenziale, ma la sapienza con cui viene tramata è immensa. 

Für Alina per pianoforte, composto negli anni Settanta e pubblicato da ECM vent’anni dopo, con il suo candore ipnotico ha avuto lo stesso impatto sul pubblico delle Gymnopédies di Erik Satie alla fine dell’Ottocento e ha prefigurato tutta l’onda neoclassica degli odierni Max Richter e Nils Frahm.

Il critico americano Alex Ross ha notato: «Non è difficile capire perché Pärt e compositori di tendenze simili (…) abbiano conquistato un successo di massa durante il boom dell’economia globale negli anni Ottanta e Novanta; offrivano oasi di pace in una cultura satura di tecnologia».

Anche Pärt, come Kremer, nel 1980 fugge e ripara a Vienna e quindi a Berlino. Fu proprio Alfred Schnittke ad accoglierlo. Pianista e compositore tra i più misteriosi del dopoguerra, ascoltiamo Schnittke interpretato da Kremer in diversi dischi qui riproposti, ad esempio il bellissimo Concerto for Three, insieme al violoncellista Mstislav Rostropovich e la viola di Yuri Bashmet.

Seguendo Kremer nell’esplorazione dei suoi contemporanei, cioè Vytautas Barkauskas, Erkki-Sven Tüür, Peteris Plakidis e altri, ma anche l’ucraino Valentin Silvestrov (nato nel 1937), del quale ascoltiamo la “sinfonia per violino” Dedication, per non parlare dell’inglese Benjamin Britten (1913-1976) – del quale Kremer esegue alcune pagine formidabili, come il Double Concerto in Si minore – sembra di assistere al materializzarsi dell’intuizione di Pärt laddove parlava di «nuda voce». Lo sentiamo addirittura quando Kremer rilegge l’opera dell’argentino Astor Piazzolla.

Questa nuda voce, quest’anima disadorna ci guida verso il suono come un Virgilio cui affidarci con spavalderia e curiosità, senza paura del difficile: non per capire, ma per abbandonarsi. Elias Canetti diceva: «L’orecchio, non il cervello, come sede dello spirito». 

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