Dalla nostalgia del futuro arriva la possibilità di perdonare il passato. I Coma_Cose sono una coppia da sempre e sfruttano la loro alleanza come un’arma, un corpo estraneo contro il sistema saturo di individualismo. La loro esistenza “non addomesticata” è il rimedio al mito dell’individuo che domina la nostra società.

Hanno ammaliato tanti a Sanremo con la loro Fiamme negli occhi, cantata uno di fronte all’altra, al cospetto della schiera di poltrone vuote dell’Ariston, con tanto di anello ardente finale. Duo emblema della scena indie milanese, i Coma_Cose – ovvero Fausto Zanardelli (detto Fausto Lama) e Francesca Mesiano (detta California) – nascono nel 2007 come sodalizio sentimentale diventato poi anche progetto artistico. La loro storia è un’iniezione di anticinismo: entrambi all’epoca vivevano e lavoravano, insieme, come commessi, in zona Ticinese: Fausto (classe 1978) aveva alle spalle un progetto cantautorale che non era decollato, mentre Francesca (classe 1990), dopo gli studi di scenografia, aveva tentato la strada della dj.

Leggenda vuole che sia stata lei a riaccendere in lui la voglia di riprovarci: più probabilmente, come raccontano anche in quest’intervista, si è trattato di un incastro, tanto felice quanto inatteso. Fausto aveva scritto dei nuovi brani e all’inizio Francesca aveva solo provato a cantare i provini, in attesa che venisse fuori la cantante giusta. Ma le circostanze casuali hanno sparigliato tutto, al meglio. Francesca e Fausto hanno mollato espedienti e ripieghi e, con poco più di mille euro sul conto, si sono buttati nelle cose oltre il coma. Il loro secondo album, NOSTRALGIA, appena uscito, è nato durante il lockdown: mentre tutto era costretto all’immobilità, il loro sguardo si è rivolto all’indietro.

È tornato così il ricordo dell’adolescenza in provincia (Brescia lui, Pordenone lei), ma anche quello del mondo della notte e delle serate, che da oltre un anno non viviamo più. Nella conversazione che abbiamo avuto su Skype nei giorni scorsi abbiamo parlato di questo ma anche della nuova esposizione mediatica arrivata con la settimana sanremese, della situazione dei lavoratori dello spettacolo, di individualismo e vocazione alla coppia, di addomesticamenti, fedeltà e nuovi modelli di genere e di relazione.

Entrambi siete milanesi d’adozione. Trasferendovi a Milano cosa cercavate e cos’avete trovato?

Francesca: Penso che tutti e due siamo un po’ scappati dalla provincia. Anche se in modo diverso: Fausto è di Salò, sul Lago di Garda, Milano l’ha vissuta tanto anche da ragazzino, la conosceva già. Io invece di giorno non c’ero mai stata. Solo qualche volta, per delle serate. Sono venuta a Milano a vent’anni e all’inizio non capivo niente, come spostarmi, dov’erano i posti, come si andava da un punto all’altro. Facevo dei giri infiniti sui mezzi. Però l’ho subito sentita una città per me.

Nel rapporto tra ideale e realtà Milano è stata all’altezza?

Francesca: Io sono di Pordenone, una cittadina nella pianura del nordest in cui non c’è più niente, nessun locale. La vita degli adolescenti era abbastanza dura. Cercavo degli stimoli, delle cose da fare. E Milano me le ha date.

Fausto: Milano è una città che ti accetta. Spesso in provincia capita di sentirsi in minoranza, per come sei o per le cose che ami.

A Milano riesci a trovare la tua nicchia, gente simile a te, ti senti rispettato. È un porto di mare, la sua natura è quella di aggregare, mischiare tante cose diverse. Di milanesi veri e propri se ne incontrano pochi: i milanesi che dicono «l’è inscì» o «la michétta» io li ho conosciuti solo nelle barzellette.

Questo anno di isolamenti e reclusioni com’è andato? Molte coppie conviventi hanno patito il fatto di dover condividere intensivamente il tempo e gli spazi.

Francesca: Da un lato eravamo pronti a questa immersione h24, perché da quando ci siamo conosciuti abbiamo sempre condiviso tutto. Il problema è stata la forzatura, la mancanza di scelta. Quello che facciamo noi ogni tanto, come rimedio, è cercare di estraniarci un po’. Tipo per due giorni non ci parliamo mai.

Fausto: Al massimo qualche mugugno, una tecnica che consigliamo.

Gli equilibri hanno retto?

Fausto: La nostra vita era già fatta, sì, di grande condivisione, ma anche di concerti, di un periodico venir proiettati in mezzo a molta gente nuova, da conoscere, con una vitalità e un entusiasmo che spezzavano la quotidianità, come una versione ingigantita dell’andare a trovare degli amici. E questo faceva bene al nostro equilibrio, anche come coppia. Portavamo fuori la nostra quotidianità, il nostro ecosistema.

Venendo meno quello è stato come se in casa si continuasse ad accumulare qualcosa, un’energia, che diventava poi difficile da sfogare. Il nostro rapporto in certi momenti ne ha risentito, abbiamo avuto dei momenti di scontro, come credo sia successo a tanti. Ma siamo qua, come dicevano le Destiny’s Child: I’m a survivor.

Come sappiamo il settore dello spettacolo è stato uno di quelli più colpiti dalla gestione della pandemia. Insieme alle esigenze reali, sembra abbia agito, nelle disposizioni della politica, anche per un certo moralismo di fondo, quello che ritiene gli spazi della cultura e del divertimento siano fondamentalmente accessori.

Francesca: Per tutte le persone con cui lavoriamo – dai fonici ai musicisti, ma anche per etichette e agenzie – è stato un bello schiaffo in faccia rendersi conto che effettivamente le cose stanno così: il settore dello spettacolo è stato ritenuto del tutto sacrificabile. Il periodo è tragico un po’ per tutti, chiaro, però con lo spettacolo e la cultura questa cosa è diventata esplicita e programmatica. È pesante, c’è tutta una dimensione della vita delle persone che non è stata preservata.

La sensazione è che si sia concentrati sulla salute del corpo, cosa comprensibile in prima battuta, liquidando però del tutto, anche nel corso dei mesi, gli aspetti legati alla salute emotiva e alle fonti che la incentivano.

Fausto: Una nazione che accantona la cultura perde la propria mappa genetica e il rapporto col futuro. Sono diventato un po’ un vecchio brontolone ma quando al parco vedo quaranta, cinquanta persone, mi chiedo davvero che senso abbia. O le chiese, i supermercati affollati. È un po’ una farsa. La gente non ce la fa più ed è chiaro che voglia sfuggire alle regole, però è mancata la volontà di trovare soluzioni nuove per consentire ai settori dell’arte e della cultura di continuare a vivere.

Sanremo stesso è stato criticato in questo senso.

Fausto: Le critiche su Sanremo le ho trovate assurde. Si stava tentando di mettere in piedi qualcosa in questo periodo di deserto totale. E i risultati l’hanno testimoniato: la gente ha bisogno di leggerezza, di svago, di messaggi, di spostarsi almeno con la testa. Lo stesso vale per i musei: una persona davanti a un quadro, a dieci metri di distanza l’una dall’altra, perché non farlo?

A proposito di Sanremo, avete sperimentato per la prima volta l’esposizione nazional-popolare. Com’è stato?

Francesca: È stata un’esperienza bella ma anche confusa: quando sei lì sei talmente tanto all’interno di un meccanismo caotico, sei talmente tanto preso, che perdi proprio lucidità. Per come siamo noi, per come viviamo noi le nostre giornate, è stato tosto.

Fausto: Il fatto di non aver avuto momenti per noi ci ha un po’ spostato l’asse. Siamo passati attraverso queste giornate maratona che ci hanno un po’ confuso le idee. Eravamo ubriachi. Adesso iniziamo a riprenderci e ne vediamo gli effetti positivi, soprattutto l’affetto della gente.

Avete colto dei rischi in questa nuova dimensione?

Fausto: Un campanello di allarme che ci si è acceso è che, ok la coppia, l’abbiamo portata sul palco, l’abbiamo messa in scena, tutto bellissimo. Ma siamo due musicisti. Non vogliamo che la dimensione musicale sbiadisca, diventando carne fresca da notizie di costume.

Il rapporto coi social è cambiato?

Fausto: I numeri si sono più che raddoppiati. A tutte le ore ci arrivano messaggi di gente che canta la canzone: chi facendo pole dance, tantissimi bambini che cantano con le spazzole in soggiorno, gente con gli animali domestici che fa il balletto. Un flusso continuo che ci diverte molto.

Nel nuovo disco, “NOSTRALGIA”, sembra che il filo conduttore vi sia stato offerto dalla fase di sospensione che abbiamo attraversato e in buona parte ancora viviamo. In molte canzoni torna il confronto col passato, il rapporto tra piani temporali e dimensioni diverse anche di voi stessi.

Francesca: Scrivere di vita se non stai vivendo è molto complicato. Almeno per noi. Così abbiamo colto l’occasione per andare a cercare indietro, nelle nostre “vite precedenti”, per raccontarle e cercare un senso nuovo a ciò che è stato. Anche perdonando certe cose che ci hanno fatto soffrire, che ci erano rimaste dentro con ricordi più o meno veri, più o meno dolorosi.

Il processo creativo in questi mesi si è modificato?

Francesca: Abbiamo fatto un lavoro diverso sulla scrittura, ma anche sulla musica, sul suono. Avevamo la necessità di cambiare. Ad esempio, ora le canzoni sono scritte da un unico punto di vista. Prima c’erano sempre una dimensione duale: il mio punto di vista, la mia voce, e quella di Fausto, accostate. Ora invece abbiamo lavorato cercando di creare una voce unica.

Fausto: Per rimetterci in gioco ma anche per sfuggire anche un po’ alla trappola della coppia, della canzone per forza romantica, che è la nostra forza ma può essere anche un limite se diventa una formula che si ripete.

Siete in una fase di passaggio: dall’esordio e alla continuità di un processo creativo. La patite?

Fausto: La scommessa è quella del mantenere un’identità, di penna, di coerenza, ma appunto senza ripetersi. Crediamo di avercela fatta ma siamo molto curiosi di sentire ora le impressioni del nostro pubblico. Qualcuno magari resterà deluso dal fatto di non trovare più tutto quello che c’era prima, e ci sta. Ma se devo pensare ai dischi che mi sono piaciuti di più nella vita sono quelli che hanno sconvolto la visione che avevo maturato di quel gruppo o di quell’artista. Come nel caso dei Radiohead.

Viviamo in un momento in cui l’individualità, l’iniziativa personale e la volontà vengono esaltate: la vostra storia parla invece sia di un ruolo della casualità, dell’importanza che può avere una forma delle cose diversa da quella che immaginavano, che di una forza che arriva dall’incontro, dalla somma di due individualità.

Fausto: Nel brano Discoteche abbandonate, per fare una critica a qualcosa che ha contribuito alla decadenza di tutta una grande fase del nostro paese, parliamo infatti di un «berlusconismo interstellare», questo mito del self-made man che riesce a vincere, a imporre sempre la propria idea. Ecco, tutto questo non fa parte del nostro retaggio. Noi abbiamo trovato il nostro equilibro nella coppia e a prescindere dalla musica.

Credo sia un po’ nel Dna di ciascuno: c’è chi è fatto per stare da solo e chi si sente completo in un piccolo gruppo speciale, quale può essere la coppia. Alcuni sono animali da coppia, altri animali solitari.

Un incontro, il vostro, che è stato un po’ un ricordarsi a vicenda chi eravate.

Fausto: Noi ci siamo trovati, ci siamo aiutati a risvegliare reciprocamente un po’ il fuoco sopito dalle circostanze della vita. Il fuoco della e delle passioni, che abbiamo preso come metafora centrale per questo progetto, da Fiamme negli occhi, il pezzo di Sanremo, alla copertina del disco. Questo fuoco che sembrava destinato, non dico a spegnersi, ma almeno a non divampare mai. Insieme siamo riusciti a invertire un po’ il corso degli eventi.

Rischi della vita a due?

Fausto: Penso che sei felice in coppia quando, stando con l’altro, continui a trovare te stesso e non diventi un fantasma, una copia mal riuscita o un’imitazione grottesca dell’altra persona. L’infelicità arriva quando completarsi diventa un farsi il verso, schiacciandosi uno sull’altro, sopprimendo le specificità.

Nella seconda traccia, La canzone dei lupi, cantate: «Col tempo tutto si addomestica tranne i lupi e noi». Sembra che la cantiate a qualcuno, a chi è rivolta?

Francesca: Cantiamo per ricordarlo a noi stessi, ma sicuramente è vero che quando cresci, e quando il tuo lavoro cresce, si entra in certe dinamiche, in certi incontri, che possono snaturarti, nel bene o nel male. In parte modificarsi è positivo, ma la speranza è anche quella di rimanere fedeli a sé stessi, pur nell’evoluzione. Il fuoco iniziale è importante: al di là di tutto quello che ti succede tu sei quella persona lì.

Fausto: Diventare adulti è un lavoro difficile. L’omologazione è dietro l’angolo, e anche la disillusione. Cominciare a dire: «Beh ma tanto». Ecco, quella secondo me è l’inizio della fine. È importante mantenere una propria quota di “contro”, “essere contro”. Non essere contro per forza, a prescindere, ma continuare ad ascoltare le parti di sé che non sono in sintonia con quello che abbiamo attorno. Quel pezzettino lì deve continuare ad ardere, è una bella benzina.

Oggi si parla molto del rapporto tra maschile e femminile, è in atto ormai da anni una rivisitazione e un ampliamento dei ruoli e dei modelli. Voi appartenete, tra l’altro, a due generazioni diverse: come la vivete, come singoli e come coppia?

Francesca: Questo è uno degli effetti positivi dei social. Vengono demonizzati per un sacco di cose ma hanno senza dubbio sdoganato una serie di questioni, tra cui proprio queste. Per me è una vittoria il fatto che si inizi a pensare di essere liberi di essere ciò che si vuole, indipendentemente dal genere a cui si appartiene. Prima dei social la faccenda era ben diversa.

Fausto: Noi siamo una coppia ma siamo anche abbastanza agli antipodi come persone. Siamo in disaccordo su quasi tutto, dal delivery da ordinare alla sera alla meta per le passeggiate. Lo stereotipo della coppia maschio-femmina non ci appartiene e credo se ne sia accorto anche il pubblico: ci è arrivata una bella vibrazione in questo senso. L’idea che due persone, molto distanti, per molti aspetti diverse, si uniscano per creare qualcosa, nel nostro caso va oltre il genere e il discorso di coppia. Noi siamo anche tanto amici, tanto compagni di avventure: questa componente qua forse alla gente è arrivata.

Nel futuro vi vedete sempre a Milano?

Fausto: Già da un po’ noi abbiamo iniziato un processo di deurbanizzazione. Ci siamo trasferiti in una zona meno centrale. Forse siamo in un momento della vita in cui abbiamo voglia di uscire dalla città, di andare verso la natura. Io vengo dal lago, Francesca dalle montagne. A volte ci manca l’orizzonte, lo spazio grande.

Dove andreste?

Fausto: Magari nelle terre dei genitori di Francesca, che ha la mamma siciliana e il papà calabrese. Nel nostro desiderio di natura a volte pensiamo alla Sicilia, cambiare proprio misura.

Francesca: Però cambiare spaventa anche. Vedremo.

Un sogno per i prossimi mesi?

Francesca: Un viaggio in Russia, in macchina.

Fausto: E tornare sul palco: non sarà un’estate di normalità, ma almeno sgranchirsi le corde vocali.

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