Scrivere di trent’anni di viaggi e incontri solitamente non è facile, a volte si rischia di rendere epico un fatto, di distorcere a proprio piacimento la realtà, per rimanere in una “comfort zone” che ci fa stare bene e magari ogni anno che passa il pesce pescato diventa sempre più grande, fino a diventare la balena che ci ha inghiottiti in Patagonia per sputarci fuori proprio vicino al porto canale di Cesenatico, a due passi da casa. Chissà quante volte ci è successo, di ricordare qualcosa di normale che poi è diventato magico nel tempo. Nello scrivere E alla meta arriviamo cantando, il mio libro di trent’anni di viaggi, incontri e musica con i Modena City Ramblers, la band in cui, insieme ad altri quattro sbandati, cioè in quel momento senza band, ho iniziato a suonare musica irlandese da pub in quel lontano 1991, un anno prima di Mani Pulite che in parte cambiò l’Italia, invece non ho fatto molta fatica.

Perché quei ricordi si sono ben cristallizzati nel tempo, si sono radicati nello stomaco, nel cuore e poi, col tempo anche nella mente. E poi vabbè, ci sono le fotografie, i filmati, i ritagli di giornale, fondamentali per i dettagli, che a volte, anzi quasi sempre, fanno la differenza. E poi scrivere di sé stessi si rischia, nel migliore dei casi, di risultare noiosi, di dire cose che solo tu puoi capire, di essere pedanti o fin troppo retorici o finto divertenti.

Mi sono immaginato di essere un testimone di questi avvenimenti, cercando di dare voce non a me, non ai miei compagni di viaggio, ma alle persone e ai luoghi incontrati, le musiche ascoltate, le vere protagoniste di questi anni. Ho cercato, per quanto possibile – ricordatevi sempre che chi suona su un palco, per quanto modesto possa essere, rimane sempre uno di spettacolo, un po’ narcisista anche se non lo ammetterà mai neanche sotto tortura guantanamese – di fare parlare i campesinos del Chiapas, i bambini saharawi, gli scrittori sudamericani o gli ex guerriglieri boliviani.

Incuriosire il lettore

Io e i miei compagni di viaggio siamo stati solo gli occhi, le parole, il megafono di queste persone. E abbiamo ascoltato, piuttosto che parlato, e solo così dopo tanti anni si può ricordare davvero, interiorizzando tutto. Solo così si sedimenta. E solo così questi ricordi possono diventare un libro di viaggi, che spero, incuriosisca, piuttosto che meravigliare, il lettore.

Il mio obiettivo non era far dire “che bravi che sono stati a fare tutte queste cose” ma “guarda cosa succede il quel posto, che belle persone che hanno incontrato”. Spero proprio di esserci riuscito, perché altrimenti sarebbe un esercizio di stile e nulla di più.

Certo, le storie rimarrebbero lo stesso, ma perderebbero la forza emotiva che sono state la benzina che ho usato nello scrivere.

Mondi diversi

Sono stati trent’anni intensi, non ci siamo mai fermati per più di un paio di mesi, negli anni. Questo anno di forzata chiusura di tutte le attività dal vivo mi hanno costretto a ripensare, quasi in modo coercitivo, a tutti gli anni passati in giro, sui palchi, sui furgoni, a tutte le persone a cui ho stretto le mani, a cui ho offerto da bere spesso ricambiato, dopo un concerto e che mi hanno inondato di parole come fiumi in piena. E questo ripensare e riguardare i memorabilia mi hanno fatto venire voglia di scrivere, di mettere nero su bianco. Non è una biografia, non è “la verità”, è la mia visione dei fatti, anche se i fatti sono veri, filtrati dalle mie emozioni, che come dicevo prima, si sono sedimentati nel tempo. Il mondo in questi trent’anni è cambiato molto, anche se forse ha solo cambiato pelle, come un serpente che fa la muta, ma dentro rimane sempre il serpente di prima. Certo, gli smartphone e le telecomunicazioni hanno cambiato il quotidiano di una parte del mondo.

Ma quello che ho avuto la fortuna di vedere io, con i miei compagni Ramblers, credo sia rimasto ancora tale e quale. Forse gli smartphone hanno solo allargato la forbice delle differenze tra i vari mondi, che io chiamerei diversi, non più con l’anacronistica, un po’ razzista o nel migliore dei casi un po’ sempliciotta e superficiale nomenclatura del tipo primo, secondo e terzo mondo. Qui siamo tutti terzi, perché l’uomo viene dopo lo spazio e il tempo, e noi che pensiamo di poter controllare tutto, invece il tempo e lo spazio non possiamo proprio controllarlo. E allora dico che forse questi trent’anni in realtà hanno cambiato poco le cose, sicuramente non nei luoghi che abbiamo visto con i nostri occhi, ascoltato con le nostre orecchie, annusato con i nostri nasi. La Palestina è ancora ben lontana dal potersi considerare uno stato, i saharawi sono ancora lì nelle tende nel deserto, Cuba, ed è un caso positivo, ha ancora tra i migliori medici nonostante l’embargo, nonostante la perdurante ostilità dei gringos acuita negli anni scorsi dal trumpismo. Certo, forse qualche bambino in Chiapas o in qualche altre parte del mondo diverso potrà sognare di diventare un calciatore famoso guardando Ronaldo su YouTube, oppure sognare di diventare un grande chef, ma la sostanza, di fondo non cambia.

Sono storie di ultimi, o di penultimi, se va bene, che da quando ho memoria di gruppo, mi accompagnano. Ma nelle storie che ho raccontato ho voluto porre l’attenzione sugli aspetti belli, sulle persone, sulle potenzialità, sulla forza, sulla gioia delle persone incontrate, che mi hanno trasmesso la loro energia vitale. E poi che dire degli incontri con musicisti, scrittori, dai più underground a quelli mainstream.

Sepúlveda sicuramente, insieme a Paco Taibo, è stato importante sia dal punto di vista del gruppo che anche personale, ma tutti e dico tutti, senza poter essere smentito perché qui non ho contraddittorio, sono stati importanti, interessanti, tutti hanno lasciato qualcosa.

Rinfrescare la memoria

Se hanno fatto di me una persona migliore non so, non sono certo io a potermi valutare, sicuramente hanno lasciato in me ogni volta la curiosità di conoscere ancora più a fondo. Quello senz’altro. Senza una grande curiosità per quello che succede intorno a noi, sicuramente una band come la nostra non sarebbe vissuta così a lungo. Ci piace raccontare le storie, che siano di partigiani, di donne schiave o di guerre lontane, nel tempo o geograficamente. E credo sia anche importante rinfrescare la memoria, come fanno le ragazze e ragazzi di Libera, tanto per citare qualcuno che davvero ci mette la faccia, cuore e che abbiamo avuto l’onore di conoscere a fondo. Siamo in un’èra dove le cose passano in un lampo, sostituite da altre che sostituiscono altre ancora senza che te ne accorga, dove gli influencer sono più influenti dei genitori, degli insegnanti, delle istituzioni democratiche.

Siamo quasi a un punto di non ritorno, se continua di questo passo presto voteremo su Instagram i nostri governanti, che vedremo solo fotoscioppati, senza rughe, sorriso ammiccante anche se dietro si celano anime nere, proprio come i serpenti che si rifanno belli al cambio di stagione. Del resto tutto è iniziato con un collant davanti all’obiettivo di una telecamera, e pensavamo fosse solo una cosa di costume, e invece. Per questo credo che valga ancora la pena di viaggiare, di conoscere, di incontrare, di ascoltare, di ricordare, di scrivere, di suonare. Non è “ai nostri tempi sì che sapevamo vivere”! Non è nostalgia dei tempi andati. Non è quello che ho provato nemmeno scrivendo questo libro, che non è un libro di memorie. Forse solo un sub-totale, in attesa di aggiungere alla storia dei Ramblers altri viaggi, altri incontri, altre musiche, altre parole, altre emozioni, altri furgoni, altre strette di mano, altre birre, le ultime con moderazione, le altre senza. Il totale è ancora lì da venire, da raccontare, da cantare fino alla meta.


Franco D’Aniello è autore del libro E alla meta arriviamo cantando – Le storie, i viaggi, la musica dei Modena City Ramblers, edito da La Nave di Teseo

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