Ho trascorso i primi mesi della mia vita in un container con i miei genitori, tutto attorno c’era il fango di una cittadella in espansione. Era il 1985 e la cittadella si chiamava San Patrignano. Mio padre era arrivato lì nel 1981, da Roma, per disintossicarsi da un forte disturbo da uso di eroina.

Ce lo aveva portato di peso mio nonno, insieme hanno dormito in macchina per giorni, poi è stato accettato. Mia madre lo ha raggiunto non appena le è stato permesso, scendendo in autostop dal Veneto, per non lasciarlo da solo. Sono nata a Rimini, quando mi chiedono perché, rispondo «passavamo da quelle parti».

Lo sanno innumerevoli amici, lo sanno i parenti di millesimo grado, lo sa anche un po’ di gente a caso. Non è mai stato esattamente un segreto, non è mai stata esattamente una cosa di cui parlare in pubblico. Ora, non è necessario che questa storia abbia un peso eccessivo nell’economia della mia esistenza, soprattutto da quando mio padre è morto.

Soprattutto perché il tempo passa e la memoria collettiva cancella, rendendo la parola “Sanpa” una lallazione dimenticata dai più. C’è ancora, ma la stragrande maggioranza del paese può fregarsene. C’è ancora, ma nessuno si ricorda più della cronaca nera, del potere che si esibisce con maggiore forza proprio quando finisce in tribunale.

Alla luce di tutto ciò, iniziare il 2021 con la storia di quel posto nella top 10 Netflix dei più visti in Italia, è stato abbastanza scioccante.

SanPa. Luci e tenebre di San Patrignano è la prima docuserie italiana a comparire nel catalogo della nota televisione a pagamento. Gli autori Gianluca Neri, Carlo Gabardini, Paolo Bernardelli, e la regista Cosima Spender, hanno fatto un lavoro eccellente.

1995 Vincenzo Muccioli (Rimini, 6 gennaio 1934 – Coriano, 19 settembre 1995) è stato un imprenditore italiano, fondatore della Comunità di San Patrignano dedicata al recupero delle vittime della tossicodipendenza Nella foto: i funerali di Vincenzo Muccioli

In molti vedendola hanno pensato a Wild wild country, docuserie sempre targata Netlfix, sull’incredibile parabola della comune-città del guru Osho nel Stai Uniti. Io credo però che le similitudini siano più legate alle scelte di stile e di regia che ai contenuti. Quando si ragiona di storia, l’appiattimento è sempre una grande tentazione, ma il fatto che Osho e Vincenzo Muccioli fossero due uomini forti, carismatici, accentratori, con una personalità marcatamente narcisista, non rende i loro percorsi e le parabole delle loro comunità sovrapponibili.

La differenza più importante sta nella relazione con il potere locale e centrale. Oregon e Stati Uniti non sapevano più come espellere la città degli adepti del Bagwan dal proprio corpo, poiché essi si appellavano ai principi della stessa costituzione statunitense. Lo Stato italiano, che desiderava in modo struggente continuare a delegare un problema sistemico dentro le quattro mura chiuse di San Patrignano, non sapeva più come difenderla, perché all’interno di quelle quattro mura si continuavano ciclicamente a violare le leggi dello Stato.

Muccioli non è Osho

La seconda differenza sostanziale è che, da un certo punto in poi - un punto invero assai precoce - Bagwan si è ritirato in un ostinato mutismo, delegando le responsabilità legate all’atto stesso del pronunciare parole in pubblico al suo entourage.

A Vincenzo Muccioli va riconosciuto di non aver mai smesso, fino a che ha potuto, di andare incontro e contro al mondo col suo corpo e la sua voce. Sia che fosse pronunciando parole di accoglienza, sia che fosse con esternazioni di una gravità agghiacciante.

Del luogo in se, con una chiave romanzesca che rielaborava preziose fonti dirette, avevano già parlato Andrea Delogu e Andrea Cedrola nel libro La Collina (Fandango, 2014), ma quando si parla di SanPa non si parla mai solo di un luogo. Lo ha ricordato Enrico Deaglio nello straordinario pezzo uscito il 2 gennaio su Domani: quando si parla di SanPa si parla della storia complessa, e mai chiarita né digerita, dell’arrivo dell’eroina in Italia.

Ne parlò Giovanni Minoli con lo speciale Rai Operazione Bluemoon. Eroina di stato. Ne ha scritto la storica, documentarista e scrittrice Vanessa Roghi in Piccola città. Una storia comune di eroina (Laterza, 2018), ovvero un romanzo autobiografico e di approfondimento storico che è un vero gioiello; la prima pubblicazione da correre a leggere per capire l’evoluzione del mercato delle sostanze stupefacenti in Italia, ma anche gli usi e abusi politici, la rappresentazione mediatica, la manipolazione dell’opinione pubblica a seconda degli interessi del momento.

yFoto Lapresse - Matteo Corner 15/03/2018 Milano (Italy) Cronaca Nella foto: Presentazione mostra Collezione San Patrignano alla Triennale Nella foto

Una lettura fondamentale che mi ha fatto comprendere come, in fondo, non sia mai stata SanPa in se a preoccuparmi, bensì il modo in cui lo Stato si fosse specchiato in essa, riconoscendosi.

Quasi tutti quelli che sono passati da SanPa in quegli anni fondativi sono legati da un debito di gratitudine che non sembra avere fine. Questo mi ha insegnato fino a che punto la gratitudine possa essere una schiavitù, ma anche che dalla disperazione completa si esce aggrappandosi a quello c’è.

A SanPa mio padre faceva l’odontotecnico e ne era molto orgoglioso. Ne è uscito all’inizio dell’86, ha aperto un laboratorio, è rientrato nell’89 in seguito a una brutta ricaduta e a un’overdose, in questo caso di cocaina.

È stato dentro per circa un anno, quella volta in una sede distaccata di Trento – che in seguito è stata chiusa - mentre noi lo aspettavamo fuori. Dopo essere tornato non ha mai più ripreso il suo mestiere. Eravamo ulteriormente impoveriti, i miei hanno iniziato a fare gli operai, cambiavamo spesso casa e città. La versione ufficiale era che lo facevamo per motivi di lavoro.

La verità è che qualcosa nel cervello di mio padre si era spezzato, consumato, interrotto, vai a sapere. Tutto attorno a lui era un complotto e tutti, prima o poi, finivano col farne parte. Quando un luogo diventava inospitale, ci spostavamo. Anche se nessuno gli ha mai fatto una diagnosi, questa si chiamerebbe doppia diagnosi. È quando al disturbo da uso di sostanze si associa un disturbo psichiatrico.

Se non fosse una tragedia avrei dunque trovato divertente, esilarante, sentire Vincenzo Muccioli dichiarare la sua aperta opposizione alle scienze psichiatriche e alla psicologia.

Nella testa di mio padre

I “Ciocchi”, il “Sole Piatti”, le chiusure nel tino, nella cassaforte della pellicceria, nella piccionaia, l’istantaneo esame di coscienza che tutti si facevano quando Vincenzo entrava in mensa chiedendosi, finché non era seduto, «chissà se ho fatto qualcosa di male», «chissà se oggi cazzierà me», a casa erano materia di normale conversazione. I miei genitori hanno sempre detto di aver visto.

Mio padre ha sempre detto di non essere mai stato picchiato né segregato. Non saprò mai se è vero, ma voglio credere di sì.

So che la comunità per molti versi lo ha aiutato a sopravvivere a se stesso, gli ha fornito un ambiente strutturato e controllato in cui riprendersi, praticare la sua professione, diplomarsi, avere delle attenzioni.

So che voleva bene a Vincenzo e che non lo sopportava, che si sentiva amato e non si sentiva mai amato abbastanza. So che ha avuto dei buoni amici e che hanno riso moltissimo. So che Roberto Maranzano è stato ucciso, che Natalia Berla e Gabriele Di Paola si sono suicidati in circostanze mai chiarite, e so che non sono stati gli unici.

So che del metodo San Patrignano facevano parte l’inseguimento, il controllo, le intercettazioni, il sabotaggio, in taluni casi anche della vita al di fuori della comunità. E so che mio padre ha vissuto nel terrore di essere seguito, controllato, intercettato, sabotato. Era spaventato, aggressivo e autolesivo come una bestia in gabbia. Aveva un’intelligenza istintiva, le sue intuizioni spesso erano corrette, ma le conclusioni completamente deliranti.

So che non era inseguito, né sabotato, perché era abbandonato, e di lui non  fregava più niente a nessuno.

Credo che la sua esperienza possa in parte rispondere alla domanda: che cosa succede nella testa di una persona affetta da manie di persecuzione quando viene sovraesposta a un ambiente dai metodi persecutori e privata di un adeguato percorso psicoterapeutico? Vi prego di credermi, succede un disastro.

COMUNITA DI SAN PATRIGNANO, CONVEGNO SU LA RIVOLUZIONE DA FARE 26/10/2001

Mio padre, e gli altri e le altre con lui, sono stati il prodotto delle inadempienze dello Stato, di un proibizionismo ottuso, della negazione della scienza. Criticità di cui, a ben guardare, non ci siamo ancora liberati.

Chiunque lo abbia incrociato potrà controbattere che il suo problema principale fosse il fatto puro e semplice di essere un soggetto ingestibile. Ma io non mi confronto con questa storia per parlare dei suoi limiti oggettivi, o della validità di quel sistema in relazione al suo (e conseguentemente al mio) vissuto.

Lo faccio per chiedere alla San Patrignano di ieri: quanto poteva essere valido il modello terapeutico di un microcosmo che liberava dall’assuefazione alla sostanza per sostituirla con l’assuefazione alla struttura?

E per chiedere alla San Patrignano di oggi: quanto può dirsi fino in fondo rinnovata una realtà che non si è mai davvero voluta confrontare con i crimini connessi alla sua lunga genesi?

Il ritorno, alla fine

È morto nel 2013 in seguito alle complicazioni di un tumore al fegato, a sua volta sviluppatosi da un’Epatite C diagnosticata tardivamente.

Negli ultimi giorni di ricovero aveva perso l’uso delle gambe, ma io non sapevo che erano gli ultimi giorni. Se si fosse ripreso e lo avessero dimesso non avremmo saputo cosa fare. Viveva in un’emergenza abitativa, assegnata regolarmente dal comune di Treviso, che era priva di riscaldamento, priva di ascensore, lontana dall’ospedale e circondata dal nulla di una zona industriale. La sua compagna, mia madre ed io ci trovavamo per l’ennesima volta senza mezzi, a chiederci, e adesso?

Non ho avuto troppi dubbi, ho chiamato San Patrignano, ho spiegato che eravamo alla fine, ho chiesto se, in caso di necessità, avrebbero potuto darci una mano. Hanno detto di sì, perché se sei senza speranza la risposta è quasi sempre sì. San Patrignano, in questo, è dostoevskijana. Quindi ad oggi ho anch’io un motivo di gratitudine.

Ringrazio di avermi fatta tornare a casa sentendomi sollevata e meno sola, quella sera, perché quel sì voleva dire che nel caso di uno stato terminale prolungato avremmo avuto un supporto di eccellenza. E poi ringrazio papà, perché credo non avesse nessuna intenzione di tornare, ed è morto quella settimana stessa circondato dall’affetto dei suoi cari, senza dover dire grazie a nessuno che non fossimo noi.

Nota: Nei Manuali MSD si legge che «i termini tossicodipendenza, abuso e dipendenza sono vaghi e carichi di valore; è preferibile parlare di disturbo da uso di sostanze e concentrarsi sulle manifestazioni specifiche e sulla loro gravità».

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