In aeroporto, bevendo il terzo Negroni per mitigare la mia paura di rinchiudermi all’interno di un aeromobile a sostentazione dinamica capace di muoversi nell’aria per mezzo di un dispositivo di propulsione proprio, leggo La vita quotidiana in Grecia ai tempi della guerra di Troia, di Paul Faure (lo davano con qualche quotidiano), dove si apprende che Achille si lavava le ascelle (rapidissimamente) tre o quattro volte al giorno e Ulisse aveva trovato il modo di non lavare i piatti: li infilava sporchi in un grosso cubo di legno e li recuperava perfettamente puliti, per la gioia di Penelope e lo stupore di Telemaco, che lo ammirava con occhi trasognanti; all’interno del cubo si celavano dieci sudditi che strofinavano, sgrassavano e asciugavano i piatti, ma questo non lo disse mai a nessuno.

Cassandra (coi greci non c’entrava niente, ma si teneva informata sulle vicende internazionali) avvertì tutti che c’era la fregatura, ma non fu creduta (sostiene Faure che Cassandra fosse la fondatrice del CICAP). Si apprende che nella quotidianità Cassandra era fatta così, non lo faceva apposta; occhio che hanno lavato i pavimenti, si scivola, ma figurati, caduto in terra con un male cane al coccige; occhio che piove, ma va che c’è il sole, acquazzone; copriti che prendi freddo, sono un uomo robusto, raffreddore terribile, eccetera.

Si apprende che Menelao invita Elena a uscire portandola al mare, Elena accetta, impiega tre ore a prepararsi, Menelao è un po’ spazientito, muoviti Elena, dice, ho quasi fatto, dice lei, la giornata si guasta e Menelao è furibondo, Elena chiede scusa, Menelao accetta le scuse, anziché andare al mare fanno l’amore per terra, selvaggiamente, perché erano nel 1250 avanti Cristo o giù di lì, e a quei tempi si faceva l’amore selvaggiamente, liberi da preconcetti, e se non fosse stato per il cristianesimo avremmo continuato a farlo selvaggiamente ancora oggi, per le strade, sugli autobus, sulle scrivanie, con le proprie cugine, con le proprie parenti, eccetera (intendiamoci: oggi si fa così ugualmente, cristianesimo o no, ma prima del cristianesimo non si andava all’inferno, oggi sì, e sono tutti fatti vostri).

Si apprende che Patroclo componeva odi d’amore per il cugino Achille, lui se ne fregava, Patroclo soffriva, diceva mi fai venire voglia di diventare etero, Achille diceva vieni qui, bambinone, lo baciava sulla fronte, Patroclo si scioglieva e componeva un’altra ode, Achille si indispettiva, diceva basta Patroclo, ho capito, questa cosa della poesia mi ha annoiato a morte, Patroclo metteva il broncio, sei crudele, diceva, Achille lo accarezzava, qualcuno te lo doveva pur dire prima o poi, diceva, Patroclo ci soffriva, questa cosa della pederastia pedagogica è un grandissimo imbroglio, pensava, e se ne tornava a casa deluso, scalciando le pietre, a casa componeva un’altra ode e la chiudeva nel cassetto (dice Faure che aveva i cassetti traboccanti poesie che nessuno avrebbe mai letto).

Si apprende che Agamennone incontrava persone, le guardava dalla testa ai piedi, datemi tutto, diceva, quelli erano confusi, come datemi tutto, domandavano, Agamennone si spazientiva, voglio tutto ciò che avete, e faceva una guerricciola, una battagliuccia, una scaramuccia, poi ordinava ai suoi di uscire in barca, prendete le barche, diceva, e andate a pesca, gli uomini di Agamennone si mettevano in mare, trovavano un popolo un po’ depresso e via con le battagliucce e le scaramucce per raggranellare un po’ di bottino per Agamennone, che sguazzava nel suo deposito di Micenopoli come un precursore di Zio Paperone (dice Faure).

Teti, Achille e Macaone

Si apprende che la moglie di Aiace Telamonio era pettegola e che lo mandava a fare la spesa tutte le mattine; Aiace, diceva Tecmessa, manca il sale, manca il burro, la selvaggina, Aiace la guardava con occhi innamorati, ancora, diceva, lei diceva sì, ancora, e Aiace usciva nel mattino gelido di Salamina e tornava con sale, burro, un leone, cose così.

Si apprende che Macaone era medico della mutua un po’ annoiato e stanco di prescrivere medicine inutili, celebre per aver praticato la manovra di Heimlich (che forse si dovrebbe chiamare manovra di Macaone, sostiene correttamente il Faure) a Teti, madre di Achille, durante una piacevole serata al ristorante.

Secondo il Faure le cose sono andate così: Teti inghiotte un’oliva e le va di traverso, mamma, cos’hai, domanda Achille sconvolto, ‘offo’o, dice Teti col volto cianotico, non capisco, dice Achille, ‘of’o’o, ’risto, dice Teti portandosi disperatamente le mani alla gola, ma niente, Achille non capisce, brandisce la spada bronzea e insulta Zeus, insulta Apollo, insulta Poseidone, insulta Era, insulta Ade, insulta Ares, insulta i camerieri, mentre Teti ‘offo’a, tossisce debolmente e ha il respiro affannoso;

Macaone capisce la situazione al volo e si precipita verso la donna, la afferra, Achille sta per trafiggerlo con la spada, non toccare mia madre, dice, Macaone cinge Teti con le braccia attorno ai fianchi, Achille è nervoso ma lascia fare, Macaone posiziona la mano piegata con il pugno chiuso e il pollice appiattito contro l’addome di Teti, tra lo sterno e l’ombelico, con l’altra mano si afferra il pugno e comincia a spingere, alternando colpi dorsali e compressioni sottodiaframmatiche, milleuno, Teti sta perdendo conoscenza, milledue, questa cosa segnatevela perché può tornare utile, milletré, Teti sputa l’oliva e crolla a terra sfinita, tentando di pigliare l’aria muovendo la bocca come quella di un pesce spiaggiato, Macaone siede sul pavimento, Achille ripone la spada nel fodero e ringrazia Zeus, ringrazia Apollo, ringrazia Poseidone, ringrazia Era, ringrazia Ade, ringrazia Ares, ringrazia i camerieri.

Si apprende che Agamennone spingeva Ifigenia sull’altalena nel giardino di casa, sei la mia figlia prediletta, ripeteva, grazie, diceva Ifigenia, mi piacerebbe possedere un cavallo, che problema c’è, diceva Agamennone, domani te ne razzio dieci, grazie, diceva Ifigenia, mi piacerebbe possedere un palazzo, che problema c’è, diceva Agamennone, dopodomani dichiaro una guerricciola, grazie, diceva Ifigenia, mi piacerebbe che il mio professore di lineare b capisse le mie problematiche adolescenziali e non mi stressasse continuamente, che problema c’è, diceva Agamennone, settimana prossima lo faccio uccidere e lo sostituisco, grazie, diceva Ifigenia, mi piacerebbe fare l’amore con Achille, che problema c’è, diceva Agamennone, domani lo chiamo e lo faccio venire, poi arrivava Clitennestra e diceva basta viziare tua figlia, e rovinava tutto.

Di, a, da, in, con...

Si apprende che Briseide voleva imparare a scrivere correttamente in italiano moderno, e che Priamo aveva incaricato Enea affinché le insegnasse la bella scrittura. “Dà” si scrive con l’accento, diceva Enea, perché, domandava Briseide, perché sì, diceva Enea, perché sì non è una risposta, diceva Briseide, perché è voce del verbo dare, diceva Enea, non mi pare così importante, diceva Briseide, è importante sì, diceva Enea, non mi pare, diceva Briseide,

altrimenti si potrebbe confondere con il “da” preposizione, diceva Enea, e cos’è una preposizione, domandava Briseide, una preposizione è una preposizione semplice o una preposizione articolata, diceva Enea, grandioso, diceva Briseide, le preposizioni semplici sono: di, a, da, in, con, su, per, tra, fra, diceva Enea, bellissimo, diceva Briseide, prova tu, diceva Enea, di, a, dal, col, diceva Briseide, no, fermati, non ci siamo, diceva Enea, prova ancora, concentrati: di, a, da, in, con, su, per, tra, fra, magnifico, diceva Briseide, di, al, con, no, ferma, diceva Enea, non devi tirare a indovinare, stai tirando a indovinare, la grammatica va studiata, come la matematica, non è l’oracolo di Delfi, diceva Enea, e cos’è un oracolo, domandava Briseide, un oracolo è un oracolo, diceva Enea, “un oracolo è un oracolo” non è una risposta, diceva Briseide, Enea si schermiva, parliamo di sillabe, diceva, sillaba la parola “transustanziazione”,

Briseide lo guardava storto, non l’ho mai sentita dire, diceva, cosa importa, devi sillabarla, diceva Enea, te la sei inventata, diceva Briseide, non me la sono inventata per niente, diceva Enea, questa cosa della sillabazione non serve a un tubo, diceva Briseide, e come no, diceva Enea, fammi un esempio, diceva Briseide, non vuoi scrivere poesie, diceva Enea, ma sono sperimentali, diceva Briseide, non ha importanza, diceva Enea, “tran-su-stan-zia-zio-ne”, diceva Briseide scocciata, bravissima, diceva Enea, meglio di così non potevi sillabarla, grazie, diceva Briseide, adesso posso scrivere, domandava, scrivi, diceva Enea, e Briseide scriveva, scriveva elegie guerresche per Ettore e scriveva odi amorose per Achille,

almeno finché l’àuguro Merope (specialista in ornitomanzia, podomanzia, sticomanzia, nefomanzia e crommiomanzia, dice Faure) non saltava su e le intimava di smetterla, dice il Faure, smettila subito di scrivere elegie guerresche per Ettore e odi amorose per Achille, sentenziava Merope, Briseide affranta gli domandava perché, perché devi strozzare il mio amore, Merope taceva, Briseide lo incalzava, perché devi tagliare la punta delle mie remiganti al fine di impedirmi un folle e ardente volo pindarico, Merope taceva, Briseide insisteva, hai visto nefasti presagi nel volo degli uccelli, domandava, Merope faceva no con la testa, Briseide si incaponiva, hai visto nefasti presagi nei miei piedi, domandava, Merope faceva no con la testa, Briseide si impuntava, hai visto nefasti presagi nelle nuvole del cielo,

Merope faceva no con la testa, insomma, s’inferociva Briseide, brutto manigoldo, orribile gaglioffo, ignobile lestofante, parla subito, sputa il rospo, svelami il futuro celato nel volo degli uccelli che migrano seguendo correnti indecifrabili, negli alluci valghi e nelle fasciti plantari e nei calli dei piedi, nei germogli di cipolla, nell’arrembaggio delle nuvole che si innamorano a capofitto nel maestoso cielo, ma Merope taceva, muto come un cantante dipinto su un palco dipinto, e più Briseide provava a fargli spifferare pronostici, dice il Faure, più quello taceva, tanto che si mozzò la lingua per non cadere in tentazione, dice il Faure, e nessuno seppe mai, tra i vivi o tra i defunti, le arcane sorti dell’umanità, cosicché, dice il Faure, tutti noi viviamo nel dubbio, nell’incertezza, nell’indugio, e altro non ci rimane se non una ciclopica ebbrezza.

Infatti chiamano il mio volo, io butto giù l’ultimo goccio di Campari e traballante, trasognante, trasmutante, infine m’imbarco.

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