Nel 2023 le vendite di Taylor Swift hanno rappresentato il 2 per cento dell’intero settore musicale americano, una cifra superiore a quella dell’intero comparto jazz o della musica classica.

Fenomeno Swift

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Ripeto: una cantante pop ha venduto da sola più di tutti gli artisti jazz e di tutti gli artisti classici. Centinaia, migliaia di persone di piccolo, medio e grande talento, centinaia di migliaia di ore di studio e lavoro musicale, finanche secoli di storia della musica: tutto questo è stato, nel 2023 e in Usa, commercialmente inferiore a Taylor Swift.

Una nota: Taylor Swift mi sta simpatica, e in macchina ogni tanto metto le sue canzoni (metto anche le canzoni che ascolta il protagonista dell’ultimo film di Wim Wenders, metto molte cose, guidare ascoltando musica è uno dei riti più importanti della mia giornata).

Di Taylor Swift ammiro il talento pop e ammiro pure le doti strategiche e finanziarie, un po’ come si ammira un gesto sportivo. Dunque questo non è un articolo contro Taylor Swift. Non è neanche un articolo in cui dirò «dove andremo a finire, signora mia».

Il fenomeno capitalistico della concentrazione del successo, ossia il principio del “vincitore pigliatutto”, fa riferimento alla situazione in cui chi arriva primo (in termini per esempio commerciali) tende sempre di più a oscurare tutto il resto. Viviamo ormai circondati da elefanti, e con questo intendo creature misurabilmente molto grosse, i super ricchi, i super influencer, i super artisti, i super sportivi. Per tutti gli altri, le briciole.

E con “altri” non intendo noialtri che conduciamo una vita serena in mezzo alla foresta, intendo persone comunque dotate di notorietà, persone che investono tempo e vita nel tentativo di uscire dall’anonimato.

Ragionamenti del tipo: «Il tale influencer che pubblica video dei suoi gattini vale in termini di follower più della somma di tutti i più famosi intellettuali italiani». Ho evidenziato la parola “vale” per porre l’accento sul concetto di valore. Un concetto che ci attrae.

Una struttura capitalista

Il capitalismo come struttura sociale e psicologica incoraggia la concentrazione del successo, incoraggia il fatto che chi ha buoni risultati li abbia nel tempo ancora più buoni, sempre più buoni, esponenzialmente più buoni.

Come chi ha molto capitale economico tenderà a moltiplicarlo, e avrà accesso a sempre maggiori opportunità, così chi ha capitale di qualsiasi altra natura (non solo economico, ma di fama e di seguito) tenderà a rilevarne serenamente l’esplosione nel tempo.

A questo punto si potrebbe pensare che o sei Elon Musk oppure devi abbandonare la speranza di assumere significato nel mondo, perché appunto o sei un elefante (misurabile) oppure non resta nulla per te. È un pensiero deprimente, che ha presa particolare sulle persone giovani.

Ma è anche una costruzione mentale dalla quale ci possiamo allontanare, se lo desideriamo. In fondo si tratta di numeri. Pensare che una vita sia migliore perché “ha numeri più alti della nostra” è una tentazione che ha più a che fare con la semplicità sfacciata dei numeri che con una sostanza delle cose.

I numeri danno sempre la sensazione che un ordine sia possibile. Ma si tratta di un ordine apparente, e non è buonista dire che il proprio significato nel mondo deriva anche da altre cose. Intuitivamente lo sappiamo, e come adulti (e magari educatori) abbiamo la responsabilità di tenere in vita un simile pensiero.

Una verità diversa

Questa settimana c’è stato Sanremo (ma dai?), e vi dico subito che mentre scrivo il festival non si è ancora concluso. Ogni anno penso che Sanremo sia superato, poi cambio idea e penso che invece è vitale, poi penso che è imbarazzante, poi divertente, poi inutile, poi imprescindibile.

E chissà cos’è. Forse è una manifestazione interessante perché in fondo non celebra qualcosa di molto specifico. E forse qui sta la ragione del suo successo. Sì, c’è una gara, sì, c’è un vincitore, sì, ci sono i soldi, le case discografiche, i sotterfugi, gli scandali, l’economia, per carità.

Ma in fin dei conti ogni anno di Sanremo restano impresse alcune situazioni e immagini che probabilmente negli intenti erano secondarie.

Restano le canzoni che non sempre sono quelle vincitrici (la storia di Sanremo ha innumerevoli esempi in tal senso). In qualche modo dentro il calderone nazionalpopolare emerge una verità diversa rispetto a quella della macchina capitalistica del vincitore pigliatutto.

Sanremo non manca di preoccuparsi dello share, certo, ma poi le cose prendono sempre una piega insospettabile e ci si ritrova lontani dai numeri e dalle valutazioni. In questo mi sembra esprima una curiosa forma di resistenza alla disumanizzazione.

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