Kristine Potter è una delle voci nuove della fotografia americana. Le sue immagini in bianco e nero, dense ed eleganti, pur rispettando i canoni formali della tradizione, sono finestre che aprono squarci su alcuni stereotipi su cui, fino ad oggi, si è appollaiata la società degli Stati Uniti.

Nata a Houston nel 1972 da una famiglia di militari (il papà e il nonno erano entrambi ufficiali dell’esercito), è cresciuta a Warner Robins, piccola cittadina al centro della Georgia.

Il suo maestro è stato Mark Steinmetz, fotografo silenzioso e raffinatissimo, grande erede della tradizione americana del bianco e nero, autore di South Trilogy, tre volumi considerati una pietra miliare dell’editoria di fotografia degli ultimi venti anni.

Manifest

Il primo lavoro importante di Potter si intitola The Gray Line, dedicato ai cadetti di West Point, l’accademia militare più prestigiosa d’America. Si tratta di una riflessione sulla costruzione della mascolinità e il suo legame con un’idea di gestione istituzionalizzata della violenza.

I suoi cadetti, in alta uniforme o in assetto da battaglia, sono giovani normali, dagli sguardi pensierosi, sul cui destino si stende l’ombra della morte, subita e procurata.

«Dopo quel progetto – spiega l’artista – mi sono trovata a dare una mano per l’ordinazione dell’archivio di famiglia, che conteneva alcune foto ereditate dai miei bisnonni. Definivano loro stessi “tiratori scelti”, in realtà erano artisti del Far West. Andavano in tournée con Buffalo Bill: era la prima forma di intrattenimento legato a quell’immaginario. Lì ho pensato che il cowboy era un altro archetipo della mascolinità americana su cui avrei potuto lavorare».

Nasce così l’idea del progetto che diventerà Manifest, il libro pubblicato dall’editore californiano TBW Books, che deve il suo titolo all’espressione “Manifest Destiny”, che riassume la convinzione dei coloni dell’Ottocento secondo cui la conquista di tutto il territorio nordamericano era voluta da Dio.

Verso ovest

«Per circostanze fortuite sono finita sul versante occidentale del Colorado, una zona remota e scarsamente popolata. Mi sono fermata, all’inizio, un’estate intera. Avrei voluto fotografare gli uomini, ma c’era così poca gente in giro che all’inizio passavo intere giornate senza incontrare nessuno. Così ho iniziato a realizzare anche immagini di paesaggio, che prima non avevo mai fatto».

La Potter sa che, negli Stati Uniti, la storia della fotografia di paesaggio è stata fatta proprio nell’ovest. E, agli inizi, le immagini di autori come Carleton Watkins avevano nutrito la retorica del “Manifest Destiny”, che aveva portato alla conquista di quelle regioni a spese dei nativi. Nei cinque anni in cui torna ad ovest la Potter continua a realizzare ritratti, in particolare di persone che si erano trasferiti per un’idea, quasi a voler rivisitare l’antico sogno dei coloni.

«Ho iniziato a chiedermi che significato può avere oggi quella retorica e se tutta la violenza che ha prodotto ha realizzato davvero quel sogno. E la risposta è no. Sono luoghi talmente inospitali che a malapena ci si riesce a vivere».

Post-documentari

L’immagine degli uomini fotografati non corrisponde allo stereotipo del cowboy dei film di John Wayne: «Qualcuno era davvero un allevatore, altri facevano gli agricoltori, altri girovagavano in cerca di lavori occasionali. Ma quel che è certo è che nessuno di loro si sentiva un eroe». Dal punto di vista della resa della natura, la fotografa si distanzia dalla tradizione che aveva celebrato la gloria miracolosa degli spazi immensi del West. L’orizzonte non c’è quasi mai: dominano le rocce, la terra è arida e la vegetazione è tutta un intrecciarsi di arbusti.

La strana sequenza di paesaggi e ritratti, alcuni spontanei altri in posa, viene notata dal grande fotografo inglese Paul Graham, che decide di inserire il lavoro di Kristine Potter nella mostra del 2021 all’International Center of Photography di New York, intitolata “But Still, It Turns”. L’esposizione raduna alcuni autori che rappresentano la cosiddetta “fotografia post-documentaria”. Quella pratica, cioè, che utilizza gli strumenti e lo stile documentario (quello che discende da Walker Evans) senza la preoccupazione di restituire un’immagine fedele o oggettiva di quanto registrano, ma con l’ambizione di dire di più di quanto non si vede nelle loro immagini. Un mix di poesia e documento. Invenzione e fatti. Un genere che, forse, si potrebbe paragonare alla non-fiction in letteratura: quella che si fa scrivendo della realtà, ma il cui risultato va oltre il mero reportage.

Paesaggi cruenti

A questo genere di fotografia appartiene anche l’ultimo progetto della Potter: Dark Waters. Presentato prima al festival svizzero Image Vevey, dove vince il premio della giuria, poi a Micamera a Milano, ora ha preso la forma definitiva del libro, pubblicato da Aperture, il più autorevole editore di fotografia negli Stati Uniti.

«Sono cresciuta nel sud, in Georgia. Poco distante dal paese in cui vivevo, c’è un torrente chiamato Murder Creek. Ci sarò passata davanti centinaia di volte senza farci caso. Ma una volta mi sono chiesta: che diavolo di nome è? Perché si chiama così? Poi mi sono domandata se ci fossero altri luoghi con lo stesso nome. E, con la mappa alla mano, mi sono resa conto che non solo ce n’erano altri, ma gli Stati Uniti sono disseminati di nomi terrificanti: Dead Man River, Spring Rape, Bloody Fork, Blood Creek…».

Questa osservazione si intreccia con la constatazione dell’esistenza della tradizione, tutta americana, delle murder ballads: canzoni che raccontano episodi cruenti, in cui, quasi sempre, è un uomo che uccide una donna e la abbandona in un fiume o in un lago. Sono brani talmente radicati nel folk americano che, alcuni di essi, sono diventati dei veri e propri standard: Pretty Polly è stata incisa da Bob Dylan, Knoxville Girl da Nick Cave, Down in the Willow Garden da The Chieftains e Bon Iver.

La Potter, ad esempio, è andata sui luoghi storici della morte e della sepoltura di Naomi Wise, la giovane orfana protagonista della canzone Omie Wise, uccisa nelle acque di un torrente del Nord Carolina nel 1808. Anche in questo lavoro l’artista alterna paesaggi e ritratti. Gli uomini sono ripresi in esterno, mentre le donne sono immortalate in studio, su fondo nero, quasi a impersonare le eroine delle murder ballads. Realtà e finzione interagiscono con i testi delle canzoni per dar vita a un racconto volutamente inquietante. La violenza e la morte sono solo evocate, eppure costituiscono il nucleo rovente dell’opera.

«Mi sono chiesta se la storia della violenza, di cui è intriso soprattutto il sud degli Stati Uniti, vive anche nel paesaggio. O almeno ci influenza quando ci muoviamo. Mi interessa il fatto che tutte le storie che raccontiamo di noi stessi, penso anche alla tradizione del southern gothic - William Faulkner, Carson McCullers o Flannery O’Connor - sono spesso basate sulla violenza. E, per le donne in particolare, questo vive nella nostra psiche: se attraverso un parcheggio di notte per andare a prendere la mia auto, stringo le chiavi in mano come un’arma, perché so che potrebbe succedermi qualcosa».

Se per il paesaggio dell’ovest, l’artista aveva cercato rendere il senso di disorientamento dei “moderni cowboy”, la sfida nel sud è molto diversa. «In Colorado c’è così tanta luce che anche le ombre sono luminose. In Georgia, invece, è l’esatto contrario. Tutto è oscuro, vitale, pieno di energia. La vegetazione è fitta. E l’oscurità è ciò che mi interessava. Volevo rendere l’eco che percepivo. Che forse è l’eco della tanta violenza di cui la nostra terra è stata teatro».

Anche le scelte tecniche sono dettate da questa ricerca: se per Manifest la Potter aveva utilizzato un banco ottico a pellicola, per Dark Waters ha scelto il medio formato digitale che permette, grazie alla maggior sensibilità del sensore digitale, di catturare la profondità di campo con esposizioni più brevi, per fissare meglio i particolari della scena poco illuminata.

Ma la ricerca del dettaglio è funzionale alla resa psicologica della scena. L’obiettivo non è tanto la documentazione di luoghi o situazioni reali – l’artista dice che l’80 per cento dei ritratti sono messi in scena – né tanto meno la rappresentazione letterale delle storie delle murder ballads.

«Per me, queste canzoni sono esempi di gran parte della nostra narrazione culturale contemporanea, cioè quell’intrattenimento che svilisce le donne. Il mio lavoro utilizza spesso esempi specifici, ma la mia speranza è che vengano compresi per rappresentare circostanze più generali. Le immagini più ambigue del lavoro sono il mio modo di porre domande su ciò che è realtà e ciò che è nella mia mente - e, per estensione, su ciò che è plasmato da questa lunga storia di svilimento».

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