La scena è tra quelle che tolgono il fiato: l’ultima vittima del serial killer Dahmer, protagonista dell’omonima serie del momento true crime su Netflix, riesce a scappare dall’appartamento dove stava per essere ucciso. Corre seminudo in città cercando aiuto. Insieme a lui, noi spettatori corriamo per strada spaventati e disperati. Siamo negli anni Novanta, a Milwaukee, nel Wisconsin. Abbiamo varcato il confine tra casa e città, come spesso accade nella narrazione delle nuove serie tv. Facciamo esperienza della città, ma in un modo diverso rispetto al passato.

La città come entità unitaria e definita non esiste più. In verità, una tale città non è mai esistita. Si è sempre trattato di un mito, che abbiamo ereditato dalla cultura greca: la polis, la città greca, come corpo organico immortale, con la sua proporzione tra le parti, è ancora il nostro modello politico e urbano di riferimento. Un modo di vedere la città a partire dal suo disegno, dalla sua progettazione. In tal modo, però, abbiamo dimenticato e continuiamo a dimenticare la più vicina cultura romana, dalla quale abbiamo ereditato la parola per indicare le città: civitas.

Come è stato evidenziato nella teoria del diritto più recente, la parola civitas definiva la città come risultante di ciò che le accadeva, come stratificazione delle relazioni tra i suoi abitanti. Una città è storia e metamorfosi, continua cancellazione del suo disegno. Eppure ha un’anima, in virtù del suo essere attraversata. Contrariamente a quanto ci è stato ripetuto da filosofi, antropologi e sociologi è la mobilità, il suo poter essere attraversato, a rendere tale un luogo.

Argomentazione seriale

Non si coincide mai, per fortuna, con i luoghi, che possono invece registrare o meno traccia del nostro passaggio. Negli anni Novanta, Marc Augé ha coniato la fortunata espressione “non luoghi” a proposito dei luoghi di passaggio per eccellenza, come aeroporti o centri commerciali. Secondo l’antropologo erano tutti uguali, avevano perso ogni carattere per essere un luogo, ma si sbagliava profondamente. Chiunque viaggi o si rechi in diversi centri commerciali ne percepisce la chiara differenziazione dovuta proprio ai cambiamenti interni, alle persone che vi circolano, ai ricordi che si addensano per essere noi passati in diverse occasioni. Non siamo la società dei “non luoghi”, ma degli “iperluoghi”.

Più ci muoviamo, fisicamente o digitalmente, più alteriamo luoghi, contribuendo a ridefinirli. Mi si dirà, a questo punto: dove possiamo vedere una rappresentazione esemplare di quello che stai dicendo? Da anni sostengo che possiamo imparare molto dalle serie tv di ultima generazione. Possiamo imparare concetti filosofici, imparare addirittura ad argomentare meglio. Possiamo imparare a vedere la città in un modo radicalmente diverso, a questo punto, più vicino alla civitas romana che alla polis greca.

Le serie tv di ultima generazione sono in grado, già da diversi anni, di mettere in campo al meglio le risorse estetiche relative alla qualità della narrazione, della caratterizzazione dei personaggi e soprattutto delle ambientazioni. La nostra mente, per percepire un luogo, impiega tempo: necessita di una continua frequentazione. Ebbene sì, anche guardando un luogo dal nostro televisore o dal nostro smartphone, come hanno dimostrato le ricerche di Schaun Mooures, lo frequentiamo in qualche modo.

Non si tratta, secondo il sociologo, di “luoghi surrogati”, o virtuali, ma di esperienza di luoghi a tutti gli effetti.

Da questo punto di vista le nuove serie tv hanno fornito negli ultimi anni (insieme ai videogiochi, va detto) il migliore materiale possibile, sfruttando al massimo l’elemento del tempo a proprio vantaggio, rendendo possibile un legame inedito e profondo tra spettatori e luoghi. Così molti spettatori sentono di essere stati a Hawkins, immaginaria città protagonista della serie tv di culto Stranger Things.

Ho utilizzato il termine “protagonista” non a caso, perché le nuove serie tv hanno fatto delle ambientazioni, e in particolare proprio delle città, il loro elemento portante. Si pensi alla serie tv che ha dato un contributo decisivo alla diffusione di Netflix, House of Cards. La sigla di apertura è esplicitamente dedicata alla città di Washington e il direttore della fotografia ha dichiarato il preciso intento di mostrarla nelle scene sporca e cruda, con molto realismo.

Lo scrittore Ed Finn ha analizzato criticamente tale sigla di apertura, giungendo alla conclusione che il modo di mostrare la città è l’emblema di una «visione algoritmica» della realtà (con chiaro riferimento all’algoritmo che Netflix utilizza per profilare i propri utenti). Nella sigla non compaiono i personaggi, né altre persone, solo gli edifici della città. In verità non è così: le riprese in time-lapse mostrano i flussi frenetici che l’attraversano. Una città è una creatura vivente e le relazioni tra le persone solo il suo sangue pulsante.

Vista dal basso

Nelle nuove serie tv non vediamo la città dall’alto, dal punto di vista di un drone, quasi si trattasse di uno spot, come accade in altre produzioni. L’attraversiamo piuttosto, continuamente. Attraversiamo continuamente il confine tra casa e città, che pare non esistere affatto. Anche perché, in verità, non è mai esistito.

Si tratta ancora di una conseguenza del modello ideale della polis greca, che separava nettamente casa e città, privato e pubblico. Eppure basta vedere anche solo una stagione de L’amica geniale, una delle migliori serie tv italiane degli ultimi tempi, per rendersi conto che le case delle protagoniste sono inseparabili dal Rione Luttazzi, un quartiere di Napoli che vediamo trasformarsi nel tempo e che offre più di un ostacolo da superare a Lenù e Lila. Un quartiere padre e antagonista, personaggio a tutti gli effetti, con un’anima comune, fatta delle tante anime che popolano i suoi luoghi.

Anche nella recente Bang bang baby, per rimanere ancora in Italia, la Milano criminale degli anni Ottanta è protagonista assoluta della serie. “Nonna eroina”, personaggio chiave della narrazione, parla dello smog di Milano, e della sua puzza presente nelle case, come di una “modernità” che un boss calabrese non può comprendere. Una Milano ricca di contraddizioni, industriale e rurale insieme, incontro tra Nord e Sud, risultato delle tante anime che la popolano e che soprattutto arrivano a popolarla. Contraddittoria, ma viva, come tutti i personaggi profondi, e indimenticabili, delle storie che più amiamo.


Questo testo è un estratto dell’intervento che Tommaso Ariemma ha tenuto al Festival dei luoghi comuni di Cuneo, in occasione di un incontro con Alessandro Mari sul ruolo delle città nelle nuove narrazioni seriali.

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